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Indietro dai loro rapitori La «sindrome di Chibok»

02 Settembre 2017

Le giovani liberate sfuggono alle famiglie di origine e alle autorità per incamminarsi nuovamente verso la foresta di Sambisa, roccaforte dei miliziani islamici «Non conoscono altra vita» E lo «stigma» all’interno delle loro comunità è più forte della costrizione subita

MATTEO FRASCHINI KOFFI per AVVENIRE - 2 settembre 2017

LOMÉ, Togo - «Quando hai tuo padre, tuo marito, i tuoi figli e i tuoi fratelli lì, è ovvio che tu voglia stare lì. Che tu senta di appartenere a quel posto. Nonostante tutto». È così che la psicologa Fatima Akilu spiega il ritorno di alcune ragazze rapite dai jihadisti nigeriani di Boko Haram tra le braccia dei propri sequestratori. Sembrano sempre più frequenti i casi in cui le giovani donne sfuggono alle famiglie di origine e alle autorità per incamminarsi nuovamente verso la fitta foresta di Sambisa, roccaforte dei militanti islamici, nel remoto nord-est della Nigeria. Spengono i cellulari e ricominciano a vivere l’unica realtà che hanno conosciuto negli ultimi anni. «La riabilitazione, la reintegrazione, è un lungo processo, complicato dal fatto che la guerra è ancora in corso», sottolinea Akilu, a capo della Neem foundation, incaricata di supervisionare il programma psicologico di “de-radicalizzazione” finanziato dal governo e dalla comunità internazionale. «Le donne spesso escono da tale percorso con successo, ma in seguito fanno fatica a relazionarsi all’interno delle loro comunità. Oltre a subire lo stigma – continua la dottoressa nigeriana –, si sentono lontane dalla loro nuova famiglia. Ed essere accettate nel loro quartiere, nel loro villaggio, diventa un’impresa assai difficile, dolorosa, che può durare anni». Nonostante la guerriglia di Boko Haram sia attiva dal 2009, la fase di sequestri che prendevano di mira soprattutto ragazzine e donne è iniziata nel 2014. Tra i più noti casi c’è il rapimento di massa, il 14 aprile di quell’anno, compiuto a Chibok, una cittadina dello Stato nordorientale del Borno, dove circa 270 studentesse di una scuola sono state costrette a diventare parte della milizia islamica. Un dramma che ha provocato una campagna internazionale, “Bring back our girls” (riportateci le nostre ragazze), e ha coinvolto celebrità e personalità politiche. Durante gli anni in cattività, alcune delle vittime hanno però assunto dei ruoli relativamente importanti all’interno del gruppo. Altre sono state invece spinte a diventare bombe umane o guerrigliere. Altre altre ancora sono state ridotte a schiave del sesso, o schiave e basta, “usate” per le faccende domestiche. «Dopo tre anni di prigionia è nostro dovere sottoporle inizialmente a esami medici», ha dichiarato alla stampa Aisha Alhassan, ministro per gli Affari femminili. «Una volta stabilita la loro buona salute, vengono indirizzate verso il nostro programma di riabilitazione e reintegrazione che può durare circa nove mesi. Fa infatti parte del nostro lavoro dare a loro il supporto psico-sociale di cui hanno bisogno, e – ha concluso la funzionaria ministeriale – formarle di modo che possano tornare a scuola e competere con i propri coetanei ». Tale processo, però, è tutt’altro che semplice. Tutte le ragazze hanno subito violenze fisiche o psicologiche. Di quelle liberate dall’esercito nigeriano, alcune sono tornate incinte o già madri di bambini avuti dopo una relazione con i ribelli oppure dopo gli stupri subiti. Per molte di queste giovani donne la vita nella militanza diventa alla fine una cosa normale. «Le giovani radicalizzate possono loro stesse reclutare altre coetanee – afferma un recente rapporto dell’Unicef –. I bambini avuti con i ribelli sono invece macchiati per sempre e vengono accettati con difficoltà dalla società nigeriana ». Alcune vittime si erano invece sposate con i comandanti di Boko Haram, e avevano acquisito una posizione di rispetto che non avrebbero trovato altrimenti. È il caso di Aisha Yerima, 25 anni, moglie del comandante ribelle Mamman Nur. «Avevo incontrato Aisha lo scorso febbraio, dopo che aveva terminato il programma governativo insieme ad altre 70 ragazze», ha raccontato la scrittrice nigeriana, Adaobi Tricia Nwaubani, condividendo la sua ricerca con diversi media tra cui la Thomson Reuters foundation e la Bbc. «Grazie al suo ruolo di moglie di Nur, le erano state affidate altre ragazzine come schiave. Ma dopo la sua liberazione e il percorso di riabilitazione – ha continuato Nwaubani –, Aisha ha ricevuto una telefonata: le hanno detto che suo marito aveva trovato un’altra moglie. Così lei è svanita dopo due settimane per ritornare da lui a Sambisa». La stessa strada è stata intrapresa da altre coetanee di Aisha, che, dopo la liberazione, avevano chiesto di essere riportate indietro. «Se sei fortunata i comandanti di Boko Haram sono in grado di corteggiarti con regali, poesie e canzoni arabe – garantiscono gli esperti –. Un trattamento a cui queste ragazzine non erano abituate».

L’intervista/«Oltre i rapimenti c’è una lotta per il potere»

L’analista nigeriano Ukeni: il caso delle liceali è stato orchestrato per minare la credibilità dell’ex presidente cristiano Jonathan

Secondo l’analista nigeriano, Stanley Ukeni, i rapimenti di giovani ragazze sono più legati alle dinamiche politiche interne che alle abituali necessità riscontrabili in una guerra. «In questo periodo si respira un’alta tensione nella capitale nigeriana, Abuja – afferma ad AvvenireUkeni –. I rapimenti di massa di ragazze e la loro liberazione hanno profonde connessioni con il potere e chi farebbe di tutto per ottenerlo».

Stiamo assistendo a diversi casi di donne e ragazzine liberate dalle autorità, ma che preferiscono tornare dai jihadisti: è possibile che Boko Haram offra una miglior vita rispetto al governo nigeriano?

Non penso che queste donne si trovino in migliori condizioni con Boko Haram invece che con le proprie famiglie. Purtroppo molte di loro, specialmente le più giovani, hanno subito un duro e lungo lavaggio del cervello da parte dei militanti islamici, credono che Boko Haram stia combattendo per migliorare le sorti del popolo della Nigeria settentrionale. Le persone catturate, maschi o femmine, pensano quindi di fare parte di un movimento di liberazione. Inoltre, c’è una superstizione locale che convince molte di queste ragazze di essere fortemente influenzate dal volere del proprio “marabout”, o leader religioso musulmano, il quale avrebbe il potere di ucciderle nel caso non rispettassero la sua volontà e provassero a ritornare a casa scappando dai jihadisti.

E possibile fare una distinzione numerica fra quante di queste ragazze diventano militanti, quante mogli e quante schiave? La loro sorte da che cosa dipende?

Se prendiamo come esempio le 276 ragazze rapite a Chibok, sembra che 104 siano ancora prigioniere. Credo che gran parte di loro siano state forzate dai jihadisti a sposarsi o a diven- tare schiave. Poche altre sono invece state costrette a diventare vere e proprie militanti e imbracciare le armi. Questo perché molte delle ragazze rapite sono di fede cristiana e c’è quindi una difficoltà maggiore a renderle attive partecipanti a una ribellione di matrice totalmente musulmana.

Perché crede che proprio il caso delle ragazze di Chibok abbia avuto maggiore risonanza nel mondo rispetto ai molti altri casi di giovani rapite da Boko Haram?

Il motivo principale è uno: il caso di Chibok si è guadagnato un’attenzione a livello internazionale perché è stato orchestrato dalle stesse persone che volevano minacciare la credibilità dell’ex presidente cristiano, Goodluck Jonathan. Questo sequestro di massa è stato sfruttato dalle élite della Nigeria settentrionale, a maggioranza musulmana, per incrementare il supporto verso la rimozione di Jonathan.

Come pensa che il governo nigeriano possa seriamente aiutare le ragazze liberate a reinserirsi nella società?

Le vittime dei rapimenti hanno bisogno di un aiuto psicologico intenso. Chi vuole dovrebbe poter completare il ciclo di studi. Nel caso contrario, il governo e le aziende locali dovrebbero fornire assistenza affinché queste ragazze possano avviare delle attività commerciali o lavorative. Ci deve essere un meccanismo di assistenza continuo che dovrebbe durare a lungo nel tempo.

Il desiderio di ritorno delle rapite verso i propri sequestratori potrebbe essere definito come una «sindrome di Stoccolma»?

Penso di sì. La scelta di tornare da chi le ha rapite è legata all’attaccamento che queste giovani donne hanno sviluppato nel corso degli anni rispetto ai militanti islamici e alle loro ragioni per continuare questa feroce guerra.

Lo studio/«Per molte è però una sicurezza»

Si può parlare di una «sindrome di Stoccolma » nigeriana? Alcuni esperti temono di sì. Secondo un recente rapporto dell’organizzazione International crisis group (Icg), il contesto in cui le ragazze rapite da Boko Haram hanno vissuto durante gli ultimi anni ha creato una sorta di simbiosi con le condizioni di prigionia. «Le donne catturate sono solitamente sotto una stretta sorveglianza da parte dei loro rapitori», afferma lo studio dell’Icg: «Devono vestire con il ni- qab e spesso sono obbligate ad ascoltare i versi coranici “per la loro istruzione”. Solo dopo – continua a spiegare il rapporto – verranno incaricate dei lavori domestici, della cucina, e di altre faccende necessarie al gruppo di combattenti. E alcune, specialmente le più “resistenti”, rappresentano un premio per i guerriglieri e vengono forzate a sposarsi con i comandanti jihadisti ». Il matrimonio – nella maggioranza dei casi delle giovani sequestrate nei villaggi – diventa quasi una fonte di sicurezza e potere per le ragazze e la loro nuova famiglia. «Ad esempio, 80 ragazze sono state date in sposa in un villaggio del nord-est della Nigeria e hanno ricevuto come dote circa 70 dollari – riferisce ancora lo studio dell’Icg –.Tale somma di denaro è molto cospicua rispetto agli standard che caratterizzano le aree rurali di quella regione». Ci sono stati altri esempi: come quello di una donna che ha divorziato dal marito per sposare un comandante jihadista che la «trattava meglio» economicamente. I ricercatori hanno inoltre documentato (c’è riscontro di almeno un episodio) in cui diverse ragazze nubili nel vicino Niger sono fuggite dalle loro famiglie per cercare mariti tra gli insorti di Boko Haram al di là del confine con la Nigeria. Come spesso accade, comunque, la ricerca di condizioni migliori di vita e la molla che spinge molti. «Già nel 2014 i leader tradizionali e le autorità nella zona di Diffa, sempre in Niger, hanno iniziato a preoccuparsi quando un numero crescente di giovani lasciava la regione: tutte volevano vedere se c’erano possibilità di ricevere “ricche’ proposte di matrimonio».

I numeri

104: LE LICEALI (SU UN TOTALE DI 276 RAPITE A CHIBOK) ANCORA NELLE MANI DI BOKO HARAM

2.000: LE RAPITE DAI MILITANTI ISLAMICI, TRA RAGAZZINE E DONNE, SOLO NEGLI ULTIMI CINQUE ANNI

145: LE GIOVANI UTILIZZATE COME BOMBE UMANE DAL 2014

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