ESreverSE - Il “lato B.” di un malinteso tra Lomé e Milano
LOMÉ, Togo (3 ottobre 2024) – “BISOGNO DI AIUTO E CONSIGLI”. Il titolo dell’e-mail non mi aveva sorpreso più di tanto. Certi giornalisti si abituano presto a ricevere messaggi di questo tipo. Nel mio caso quando posso intervengo.
Soprattutto se la richiesta collega l’Africa, il continente in cui sono stato adottato a nove mesi, con l’Italia, il Paese che mi ha formato e per cui, nonostante tutte le difficoltà, amo ancora scrivere. Questa richiesta aveva però un legame più personale. Collegava Lomé, la capitale togolese dove sono nato e vivo dal 2013, con Milano, la città dove sono cresciuto fino a 24 anni. L’ultima volta che sono intervenuto, Avvenire mi ha aiutato a smentire e ricostruire un altro preoccupante malinteso.
“Sto vivendo una situazione estrema gravità che vorrei condividere con lei e chiedere anche se possibile consigli”, iniziava così il messaggio. “Lei non mi conosce. L'unica cosa che abbiamo in comune è la nostra madrepatria, il Togo e me ne rendo conto. Penso solo che la mia storia ha bisogno di essere sentita ma prima da lei e poi vedremo. Questa scelta è solo mia. Non l'ho né meno condiviso con mia moglie. Chiedo anche scusa per il livello del mio italiano (e poi ho scritto una email in modo informale). Grazie Mille, Essé”.
Dopo avergli dato il mio contatto telefonico, Essé mi ha chiamato:
“Caro Matteo, ho commesso un grande errore – ha esordito –: cinque anni fa ho portato mio figlio togolese di 11 anni in Italia”. Con una calma “tipicamente togolese”, Essé ha cominciato a raccontarmi la sua storia fin dall’inizio. Dopo essersi separato dalla compagna in Togo e aver portato suo figlio “B.” a Milano, Essé gli ha comprato un cellulare per permettergli di comunicare regolarmente con la famiglia togolese. “Non ho mai voluto che lui tagliasse il ponte con i suoi giù in Africa, soprattutto con sua sorella, perché sua madre ha avuto un'altra figlia. Per questo gli ho subito dato un telefono anche se era un pò presto. Ma da quando è arrivato mio figlio (in Italia) è subito scatenanto l'inferno”.
Preferisco lasciare gli errori grammaticali di Essé affinché si possa immaginare lo sforzo che un togolese deve fare quando arriva in un altro Paese dove non si parla né la propria lingua madre (ewe) né quella dell’ex “potenza coloniale” (francese). Nonostante un buon livello di italiano, Essé fatica ad esprimersi anche quando parla. Il suo tono di voce emette una frustrante tensione se si sente attaccato da persone che non conosce e che non hanno la pazienza (o l’interesse) di ascoltare la sua prospettiva. Fin dall’inizio, infatti, suo figlio B. sembrava avere due lati completamente opposti: uno con il padre e la sua nuova moglie italiana, l’altro con il resto del mondo. Con il padre si comportava da “birbante”, ma con la nuova famiglia italiana, compagni di scuola, professori e amici, era un ragazzino apparentemente “perfetto”.
“Anni fa, durante la riunione dei genitori, una delle sue maestre qui in Italia non smetteva di cantarmi le sue lodi”, mi ha spiegato Essé il quale, come molti dei togolesi che conosco, riesce a sorridere davanti ai peggiori drammi della propria vita. “Io e mia moglie ci siamo guardati con gli occhi spalancati. Allora ho chiesto: ‘Signora, è sicura che stia parlando di mio figlio B.?’” Una volta ascoltata la prospettiva del padre, confermata dalla moglie italiana, la maestra ha cominciato ad osservare B. con molta più attenzione. Guardandolo con occhi diversi ha notato che il comportamento era in effetti fin troppo perfetto. Si sono così seduti una davanti all’altro e dopo alcune “domande chiave”, B. aveva ammesso che in Italia aveva una sorta di “missione”.
“Continuava a mentirmi mentre con tutti gli altri era un angioletto, carino, sensibile e comprensivo”, ha continuato Essé. “In seguito mi sono accorto che cancellava tutti i messaggi provenienti dalla madre e dalla nonna. Ho persino trovato un vocale della nonna che gli ordinava di cancellare sempre i messaggi che si scambiavano. Dopo anni di inferno, questa estate abbiamo deciso di riportare B. giù in Togo per la seconda volta. Ma questa volta ci siamo trovati a Lomè con le due famiglie e...”
Ho detto a Essé che poteva risparmiarmi il contesto: qualsiasi italiano che vive in Africa da oltre un mese capisce come da queste parti molte delle decisioni individuali le prende la “collettività”. Non solo la famiglia (stretta o allargata), ma a volte l’intero villaggio. Oppure vengono coinvolti i residenti del quartiere o della propria comunità. I leader della collettività intervengono dicendo la loro e spesso la decisione viene presa davanti alla persona che rappresenta in quel momento “un caso problematico”. Anche alcuni italiani ci sono passati da questa esperienza in Togo. Si tratta di una situazione molto simile alla “family intervention”, direbbero gli anglofoni, mentre in Italia mi verrebbe da paragonarla, almeno in parte, alle vecchie riunioni “condominiali”.
Sono inoltre tutt’altro che rari gli esempi in cui gran parte delle famiglie africane residenti all’estero (in Italia come in qualsiasi altro Stato del mondo) tendono a riportare i figli nel Paese di origine se pensano che il loro comportamento sia deleterio tanto al nuovo ambiente quanto a loro stessi. Ci sono persino famiglie francesi che preferiscono far crescere i loro figli in Senegal durante l’adolescenza. Essé e la sua nuova famiglia italiana hanno quindi passato cinque anni piuttosto difficili e la pandemia di Coronavirus gli ha costretti a vivere tutti nella stessa casa per quasi un anno. Un contesto che B, oggi sedicenne, ha ben manipolato grazie alle direttive che gli venivano date attraverso il cellulare.
La storia si stava facendo sempre più interessante e cercavo di ascoltarla con grande pazienza sfruttando il mio lato “togolese”. Sono però giorni concitati, quindi alla terza conversazione con Essé, il mio lato “milanese” ha preso il sopravvento. Avevo bisogno di arrivare al dunque per capire il prima possibile come avrei potuto aiutare questa persona. Quello che mi raccontava sembrava inoltre avere una vaga familiarità. Fino a quel momento esitavo infatti a collegare la storia di Essé con una vicenda che aveva fatto il giro di quasi tutta la stampa italiana qualche settimana prima.
Con un po’ di vergogna ho quindi chiesto:
“Essé, scusa se ti interrompo ma....non è che la tua storia c’entri per caso...con quella storia assurda di un signore togolese che avrebbe ‘abbandonato il figlio in Togo strappandogli il passaporto e dicendogli di curarsi perché è gay?’” Temevo la sua risposta.
“Si, sono IO!”
Dopo un attimo di silenzio, ammetto, siamo entrambi scoppiati a ridere.
MILANO (qualche settimana prima)
Ero parecchio indaffarato con lavoro e famiglia quando sono tornato per alcune settimane nel caldo milanese di inizio agosto. Stavo discutendo con vecchi e nuovi amici su come cambiare la narrativa dell’Africa offerta agli italiani quando mi è arrivato sul cellulare lo stesso articolo da tre persone differenti. Ho letto il titolo e ho subito pensato: “....Che è sta roba?” Ho letto un po’ di più e: “....un’altra baggianata sull’Africa?” Sono anni che non ne posso più. Avrei voluto indagare ma ero troppo preso. Mi sono così limitato a inviare una breve e-mail a un paio di quotidiani per avere maggiori informazioni ma non ho avuto risposte. Francamente era meglio così. Questa storia, minuto dopo minuto, ha però cominciato ad espandersi a macchia d’olio.
La Repubblica, Ansa, il Fatto Quotidiano, Fanpage, il Giornale, il Giorno, La Nazione, e altri l’avevano ripresa. Più o meno lo stesso titolo: “Padre togolese abbandona figlio in Africa per curare la sua omossessualità”. Più o meno la stessa lunghezza: corta. Più o meno lo stesso stile: superficiale. C’era chi parlava di un passaporto strappato, chi di un figlio che rischiava la vita “a Togo”, mentre Dagospia aveva addirittura inframezzato l’articolo con foto della comunità LGBTQ+ per la Palestina e la Namibia mettendo “in copertina” l’immagine di due individui, uno bianco e uno nero, mentre si baciano.
Ovviamente, troppe cose non tornavano.
Innanzitutto, l’ambasciata italiana in Ghana non è nota per essere generosa con i visti ai togolesi. Poi, l’unica fonte della storia sembrava essere un ragazzino di 16 anni che sicuramente si fa ben capire e parla un ottimo italiano, ma, ho pensato, è probabilmente manipolato da un adulto. Al padre togolese, invece, non gli era stata data alcuna possibilità di replica. Sofia, la compagna di classe, era un’altra minorenne che nonostante le buone intenzioni non poteva assumere il ruolo di mediatrice culturale. Ecc, ecc, ecc. Insomma, troppo macello per pensarci ora. Ho quindi passato l’estate a Milano e dopo tre settimane sono tornato al fresco di una Lomé a tratti uggiosa. Ed ecco che la richiesta di aiuto da parte di Essé mi ha raggiunto.
LOMÉ (qualche settimana dopo)
“Ma tu hai dei problemi con gli omossessuali?”, gli ho chiesto.
“Ma figurati! – mi ha risposto – Ne abbiamo pure parlato, ma il fatto che lui dica di essere omossessuale non ha niente a che fare con la decisione che la collettività ha preso sul fargli passare almeno un anno in Togo. Ora lui si trova iscritto a due scuole: una a Lomé e l’altra a Milano”. Non conosco ancora tutti i dettagli ma rimango pur sempre un giornalista e come disse Tiziano Terzani rispetto alla “verità”: “Il bello sta nell’andare a cercarla”. Dopo alcuni giorni di indagini ecco quello che penso sia successo (per ora divulgo solo le iniziali dei principali “attori”):
Marco G., il padre di Sofia, ha fatto una segnalazione ai carabinieri di Moscova (che conosco abbastanza bene) e ha spinto l’Ambasciata italiana ad Accra a lavorare per “salvare” B. dal “rischio” di vivere in Togo (un Paese che probabilmente Marco G. non ha mai visitato). La procuratrice aggiunta, Letizia Mannella, ha già abbastanza lavoro con gli italiani che si comportano da “birbanti”. Il povero B. sta subendo da anni l’influenza della madre togolese la quale, probabilmente, subisce l’influenza di sua madre (le suocere sono potenti tanto in Italia quanto in Togo). Ma anche la nonna potrebbe a sua volta essere influenzata da qualcun’altro. Il liceo in questione di Milano ha una dirigente, M.R.A., che suo malgrado si ritrova davanti a una grande responsabilità: calmare le acque e, secondo me, ascoltare entrambe le parti, Essé compreso. Lo stesso vale per le professoresse Anna M., Chiara V. e soprattutto “Benlontani” (cognome inventato), che ha preso molto a cuore questo caso.
L’Ambasciata italiana in Ghana (Palermo, Siri e Saitta, in particolare) e il consolato italiano a Lomé hanno già avuto delle richieste di denaro, richieste che, secondo la mia esperienza, difficilmente si fermeranno anche se B. riuscisse a ritornare a Milano. La nostra Console in Togo, Alessandra Boaretto, è invece in contatto con l’avvocato E. N. per seguire questa patata bollente “italo-togolese”. C’è addirittura una possibilità per B. di ottenere la cittadinanza italiana, sembra, proprio in questo periodo particolare per gli “italo-stranieri”. Troppe cose non quadrano ma una cosa è certa: questa storia aveva preso delle dimensioni che un padre togolese di 38 anni arrivato dal 2017 a Milano e grande fan del film “Black Panther” non poteva gestire da solo, soprattutto mentre veniva attaccato da tutti i fronti.
Ho quindi avvertito i miei amici al Corriere e Avvenire (tra i pochi grandi media italiani a non aver pubblicato nulla sulla vicenda) consigliandogli di stare lontani da questa storia, almeno per ora. Sono invece sicuro che le persone coinvolte rifletteranno meglio sui prossimi passi da fare. Mi spiace che il Togo sia stato dipinto in questo modo brutale e frettoloso da una serie di articoli che avevano solo grattato la superficie di un caso complesso e molto delicato. Ma la vita è un’opera d’arte in continua evoluzione. Di malintesi culturali ce ne sono ogni giorno in giro per il mondo. Alcuni di essi degenerano in conflitti che, a volte, potrebbero essere evitati. In un mondo perfetto, la figura del mediatore culturale sarebbe ricompensata con lingotti d’oro.
Caro Essé, ti rivelo un ultimo pensiero. Quando arrivai in Togo da adulto per la prima volta nel 2005, un grande saggio “italo-togolese”, il noto pediatra Jean Kossi Assimadi (nominato Cavaliere della Repubblica italiana nel 1994 da Silvio Berlusconi!) mi diede un consiglio che ancora oggi coltivo con grande cura: “Ricordati Matteo che da oggi in poi ti troverai in numerose situazioni dove dovrai reagire con la mente fredda...ma il cuore caldo”. Pochi sanno che il Togo ha un rapporto particolare con l’Italia. Sono quindi convinto che nonostante tutti i drammatici malintesi, la storia di tuo figlio rafforzerà ancora di più questa relazione speciale tra due Paesi molto più vicini che lontani.
Lascio un messaggio diretto alle persone coinvolte, sia quelle che mi conoscono da anni sia quelle che non mi hanno mai sentito nominare: ho pubblicato solo una minima parte di quello che ho raccolto in qualche giorno. Ci tengo a instaurare un vero dialogo tra due Paesi a me molto cari che so hanno la capacità di rispettarsi a vicenda quando è necessario, anche se può sembrare impossibile. In Italia e in Togo ci sono inoltre diverse famiglie miste “italo-togolesi” che potrebbero aiutare a comprendere meglio il contesto. In questo periodo di tristi incertezze, proviamo a ragionare sul lato B. della verità che crediamo di conoscere. A 16 anni non è facile vivere tra due Paesi, due continenti, due mondi. Parlo per esperienza personale. Vi prego quindi di dare la possibilità al padre di spiegarvi quella che è la sua prospettiva in maniera serena. Fatelo per B.
Caro B., lo so che hai delle marce in più rispetto non solo ai tuoi compagni di scuola, ma persino ai tuoi maestri. Lo so perché non ero molto diverso da te. Ma hai pur sempre solo 16 anni. Per questo hai dimenticato che tuo padre aveva completo accesso al tuo indirizzo e-mail dove troppe bugie sono state raccontate a persone che hanno imparato a volerti bene. Ma non è colpa tua. Trovo infatti molto controverso che tu, un minorenne, sia riuscito a scambiare così tanti e-mail con i nostri corpi diplomatici italiani (quelli togolesi, sebbene tu abbia uno zio all’interno, sapevi di non poterli raggirare). Gente con molta più autorità di te fatica persino ad avere un appuntamento con le agenzie ingaggiate dalle ambasciate italiane in Africa. Te lo dico da "grand frere" italo-togolese: respira...te lo meriti. Capisco molto bene la pressione alla quale sei sottoposto. Ma tutte le bugie prima o poi vengono a galla.
Hai una scuola a Baguida (vicino alla spiaggia!), puoi finire il liceo e poi ci organizziamo affinché tu possa percorrere la TUA strada, una strada forse simile a quella che ho percorso io molti anni prima di te. Se non vuoi comunicare ora con tuo padre, lo capisco, chiedi il mio contatto ad Alessandra, la console. Se non ti fidi, domanda in giro, ho una discreta rete di carissime persone in grado di aiutarci tanto in Italia quanto in Togo. Sono a Lomé fino al 9 ottobre, credo, poi devo correre in Italia per un convegno, ma torno subito in Togo, ho tanti progetti da portare avanti. Costruiamo insieme l’Africa di domani per una nuova collaborazione culturale con l’Italia. Ci possiamo guadagnare tutti.
E se hai bisogno di aiuto e consigli, sono qui.
Matteo Fraschini Koffi