Dalla siccità alla carestia Corno d’Africa alla fame
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per Avvenire
Migliaia di sfollati, c’è un’emergenza umanitaria
DA NAIROBI - Una crisi alimentare di dimensioni bibliche si è abbattuta sul Corno d’Africa provocando un fiume di affamati e sfollati in cerca di cibo e un rifugio sicuro. Dagli uffici delle Nazioni unite a Ginevra è stato lanciato l’allarme secondo cui non si vedeva un fenomeno di tali proporzioni da almeno sessant’anni.
«È la peggiore siccità dal 1950/51», recita una nota di martedì scorso dell’agenzia Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), «Nel Corno d’Africa è scoppiata una crisi alimentare con altissimi livelli di malnutrizione, e in alcune parti del Kenya e della Somalia sono già presenti condizioni di pre-carestia». Più di dieci milioni di persone sono al momento affette dalla morsa della crisi soprattutto nelle aride aree di Gibuti, Etiopia, Kenya, Somalia e Uganda. Secondo un rapporto redatto da Ocha e altre agenzie umanitarie sul campo, la situazione sta peggiorando sempre di più.
«Due consecutive stagioni di scarse piogge hanno causato in diverse zone pastorali uno degli anni più secchi degli ultimi sessant’anni», ha dichiarato durante una conferenza stampa a Ginevra Elisabeth Byrs, portavoce di Ocha, «Non ci sono segni di miglioramento e pensiamo che questa crisi non si risolverà prima del 2012». I prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati in maniera esponenziale in questa regione dell’Africa, con terribili conseguenze per la popolazione più povera che vive con due o tre dollari al giorno.
«Alcuni distretti kenioti confinanti con la Somalia come Mandera, Ijara e Marsabit», si legge nel rapporto Ocha, «hanno visto un forte aumento del prezzo della benzina», causando quindi difficoltà alla rete dei trasporti costituita da mezzi che devono raggiungere i mercati anche nelle zone più remote dei Paesi coinvolti. Come previsto all’inizio dell’anno dall’Organizzazione del cibo e dell’agricoltura (Fao), per via degli effetti climatici prodotti dal fenomeno «La Nina » dell’ultima stagione e a causa delle scarse piogge di aprile 2011, la crisi alimentare continuerà nell’Africa Orientale e nel Corno d’Africa provocando «livelli d’estrema vulnerabilità».
Una mappa sulla sicurezza alimentare pubblicata nel rapporto dell’Onu mostra enormi aree del Kenya centrale e della Somalia che sono classificate come «stati d’emergenza », la fase che secondo le Nazioni unite precede la «catastrofe/carestia», la quinta e peggiore categoria. «I livelli di malnutrizione infantile nelle zone più affette sono almeno il doppio del livello d’emergenza rappresentato dal 15% della popolazione, e si teme un ulteriore aumento - ha continuato Byrs davanti ai giornalisti - sebbene non ci siano ancora dati certi riguardo al numero di decessi causati dalla crisi, stiamo documentando alti livelli di mortalità tra i bambini ».
La situazione peggiore si sta verificando in Somalia dove la siccità e le violenze della guerra civile costringono la popolazione a fuggire verso il confine con il Kenya. Un dramma nel dramma: da un lato la sharia sempre più feroce, applicata con violenza sempre crescente nelle zone sotto il controllo degli shabaab – i miliziani islamici qaedisti che si oppongono al governo transitorio – e dall’altro i raccolti annullati dal clima torrido. «Non siamo più sul bordo di un disastro umanitario», ha detto Isaq Ahmed, direttore dell’Organizzazione Mubarak per lo sviluppo, un’agenzia locale che lavora nella regione somala del Lower Shabelle, «Siamo nel mezzo del disastro umanitario. Nei tre distretti di Qoryoley, Kurtunwarey e Sablale del Lower Shabelle – spiega Ahmed – le nostre cifre indicano che 5 mila famiglie (30 mila persone) sono severamente affette dall’attuale siccità, e alcune di queste sono talmente disperate da cercare rifugio nella capitale Mogadiscio». Le agenzie dell’Onu hanno richiesto circa $525 milioni per affrontare le situazioni in Somalia e Kenya, ma ad oggi i finanziamenti pervenuti non superano il 50%.
I più deboli Nei campi rifugiati 800 bambini al giorno
DA NAIROBI
I l numero di sfollati e rifugiati, soprattutto tra i minori, ha raggiunto un livello mai visto prima. «Sono più di ottocento i bambini che arrivano nei campi di rifugiati in Kenya ogni giorno», recita una nota dell’organizzazione umanitaria Save the children, «i minori costituiscono una parte delle 1.300 persone che quotidianamente raggiungono i campi per rifugiati di Dadaab, nel Nord del Kenya, per fuggire alla devastante siccità nel loro Paese ». L’Alto commissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite (Acnur) ha stimato che ventimila somali sono arrivati in Kenya solo nelle ultime due settimane, un aumento vertiginoso se comparato agli ottomila che di media arrivavano ogni mese durante il 2010. E vanno ad aggiungersi alle decine di migliaia di disperati in fuga dall’inferno di guerra somali che da anni varcano il labile confine affollando i campi di fortuna nel Kenya.
«Alcune di queste famiglie camminano per un mese sulla sabbia sfidando il bruciore del sole in cerca di cibo, acqua e un rifugio – continua la nota di Save the children – I bambini infatti arrivano esausti, malnutriti e completamente disidratati».
I campi per rifugiati presenti a Dadaab hanno da tempo superato il livello massimo di capienza e la situazione continua a peggiorare provocando anche risentimenti all’interno delle autorità keniote che vorrebbero evitare tali ammassamenti nel proprio Paese.
«Quasi ogni bambino o genitore con cui abbiamo parlato ha detto che non sta scappando dalla Somalia solo per fuggire ai combattimenti », spiega Catherine Fitzgibbon, direttore del programma Kenya per Save the children, «ma ora la siccità e la crisi alimentare sono ugualmente pericolose». Quasi la metà dei bambini somali che arrivano nei campi per rifugiati in Etiopia sono malnutriti, mentre quelli che raggiungono i campi in Kenya sono in condizioni leggermente migliori.
«La maggior parte delle persone che stanno morendo sono bambini, anziani e madri incinta e allattanti», ha detto Sultan Sayidali Hassanow, un leader tradizionale del Lower Shabelle, regione a sud della Somalia, «Quelli che rimangono nelle aree più remote non possono neanche permettersi il costo del trasporto verso Mogadiscio».
Nella stessa regione vengono sepolte otto persone al giorno che sono il risultato di tre anni di scarse piogge. «La nostra popolazione non è ancora riuscita ha riprendersi da quello che aveva sofferto in precedenza – ha continuato Hassanow – e ora è coinvolta in una crisi peggiore». (M.F.K)
«Si deve investire meglio nell’agricoltura»
DA NAIROBI
D a nove anni Davide Signa è attivo nel campo della cooperazione internazionale e sicurezza alimentare del Corno d’Africa, e nella sua esperienza trova che solo una politica comune potrà evitare il ripetersi della disastrosa realtà che attanaglia la regione in questo periodo.
Le Nazioni unite parlano della peggiore crisi alimentare negli ultimi sessant’anni, quali sono le cause principali?
Sono diversi i fattori. Innanzitutto la siccità che è il risultato de «La Nina », il fenomeno secondo cui ogni sette-otto anni cambiano le temperature sulla superficie dell’oceano con, a volte, devastanti ripercussioni sul terreno. Poi c’è l’aumento dei costi dei prodotti alimentari, causati in parte anche dalle dinamiche del mercato negli Stati Uniti. Inoltre dobbiamo considerare la crisi in Libia e in altri Paesi arabi che hanno provocato l’aumento della benzina usata dai mezzi che trasportano gli alimenti. La combinazione di questi fattori, insieme alla forte crescita della popolazione e al degrado della fertilità dei suoli in varie aree del Corno d’Africa, ha prodotti questi tragici eventi.
Quindi uno dei motivi degli alti prezzi del cibo è da cercare in Occidente?
Gli speculatori delle Borse da tempo sono tra le cause principali delle crisi alimentari. Da quando nel 2006 i fondi di investimento sono stati introdotti nei mercati, gli alti e bassi dei prezzi del cibo hanno subito sbalzi ancora più accentuati. Bisogna quindi trovare gli strumenti per evitare che tali speculazioni provochino delle conseguenze disastrose per le popolazioni più povere.
Come mai le agenzie umanitarie agiscono soprattutto in periodi d’emergenza e non hanno trovato un modo per prevenire tali crisi?
Bisognerebbe chiedersi come mai le popolazioni locali non hanno trovato il modo per prevenire queste situazioni. Le ragioni sono diverse, e spaziano da elementi storici come il colonialismo, alle attuali politiche governative che troppo spesso tendono a fornire servizi inadeguati alle comunità di cui sono responsabili. L’istruzione e la salute sono altri elementi che non sono mai stati affrontati seriamente in queste regioni. Inoltre è necessario promuovere delle soluzioni a lungo termine, finanziando per esempio la ricerca di varietà di mais, cassava, sorgo, e legumi che possono essere più resistenti alla siccità. Anche l’irrigazione a goccia e una dovuta raccolta dell’acqua piovana sono indispensabili per evitare crisi come queste.
Mi sa dare un esempio di politiche governative che non aiutano a risolvere la situazione?
I livelli di corruzione in alcuni Paesi africani non permettono la promozione di politiche che le agenzie umanitarie spesso consigliano. Un esempio concreto riguarda il solo sfruttamento di aree ad alta intensità produttiva senza però iniziare ad analizzare come sfruttare anche i terreni che occupano le zone più remote del Paese in questione.
Questo è un errore ripetuto anno dopo anno da moltissimi Stati africani. In India ci sono diverse situazioni in cui l’acqua dei fiumi non è sprecata, ma viene canalizzata e utilizzata per irrigare i campi. Se invece ci spostiamo in Kenya, l’acqua del fiume Tana arriva alla foce in grande quantità perché non sono ancora stati implementati dei metodi per sfruttarla prima che raggiunga l’oceano. I miglioramenti avverranno però solo attraverso uno sforzo comune tra governi locali, donatori, agenzie e Stati membri dell’Unione africana.
Matteo Fraschini Koffi
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