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Sud Sudan, anno zero

12 Marzo 2011

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per Avvenire

L’indipendenza dopo 28 anni di guerra Ora si deve costruire una nazione vera

DA JUBA (SUD SUDAN)U n vellutato soffio d’aria calda è ciò che ti accoglie subito dopo l’atterraggio. Gli abbaglianti raggi del sole si riflettono sul grande cartellone che recita la frase: «Benvenuti nel 193esimo Paese del mondo». Per le strade di Juba, capitale del nuovissimo Sud Sudan, sono numerosi i manifesti che hanno ricordato, giorno dopo giorno, quanto l’agognata indipendenza fosse ormai vicina. E nonostante sia ormai spento da qualche giorno, il grande orologio che in mezzo a una delle tante piazze della città contava le ore al rovescio, fino alla fine del referendum, fa ancora parte di un’atmosfera piuttosto festiva. «Ora che siamo indipendenti sulla carta, dobbiamo dimostrare la nostra autonomia nella realtà quotidiana – afferma Paul Awok, giornalista sud sudanese. – Non sarà facile, gli ostacoli sono innumerevoli e richiederanno grandi capacità che spesso sono difficili da trovare tra i nostri leader, però siamo molto contenti e ottimisti». Il Sud Sudan emerge da ventott’anni di guerra civile combattuta contro il nord, e le sfide che dovrà affrontare nel futuro prossimo saranno tutt’altro che lievi. «La priorità più assoluta va data al completo disarmo della nostra popolazione – afferma con sicurezza Daniel Awet Akot, generale in pensione e ora vice-capo del Parlamento (Deputy Speaker). – Ho combattuto nell’esercito sud sudanese (Spla) per ventidue anni, e so delle migliaia di armi e munizioni finite nelle mani sbagliate. Con l’aiuto delle Nazioni Unite – continua Akot – dobbiamo quindi riprendere queste armi il prima possibile, per evitare che le violenze continuino, altrimenti una vera indipendenza, conquistata da un Paese ancora in guerra, non potrà essere sostenibile». Nonostante i programmi di disarmo portati avanti dalle varie agenzie umanitarie, quella sud sudanese è una popolazione armata fino ai denti, i cui ricordi di uno dei più lunghi conflitti dell’Africa moderna non aiuteranno a eliminare la paura di un possibile ritorno alla violenza. Nelle ultime due settimane, a nord dello stato di Jonglei più di 250 persone sono rimaste uccise negli scontri tra i ribelli del generale George Athor e l’Spla, molte delle vittime erano civili. «Conosciamo bene chi arma queste ribellioni – insiste Akot – sono le autorità di Khartum: sebbene il presidente Omar el Bashir abbia formalmente accettato la nostra indipendenza, in realtà farà di tutto per rendere instabili le aree più sensibili del Paese». Anche se gli analisti hanno recentemente focalizzato la loro attenzione sul potenziale agricolo del Sud Sudan, alla base degli scontri rimangono le ingenti quantità di petrolio, la cui maggioranza si trova nel sud. Questa settimana, tradendo le promesse fatte in precedenza, Pagan Amum, segretario generale del partito al potere, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm), ha dichiarato che non condividerà i proventi petroliferi fino ad ora maggiormente controllati dal nord: «Non condivideremo più il petrolio con il nord – ha detto Amum durante una conferenza stampa a Juba – ci limiteremo ad accordarci sui prezzi per l’utilizzo delle raffinerie e degli oleodotti che dal sud arrivano a Port Sudan».

Sarà complicato anche risolvere la questione del confine che separa i due territori di quello che un tempo era il Paese più grande del continente africano. Circa l’80 per cento del confine è marcato, ma in alcune zone il dibattito è tuttora aperto e particolarmente caldo. Abyei, la ricca regione petrolifera che ha visto il suo referendum brutalmente revocato dalle autorità di Khartum, un giorno dovrà scegliere se fare parte del sud o del nord. «Tutti sanno dove finiscono le proprie terre e dove invece continuano – assicura un ottimista Edward Lino, un tempo a capo dell’intelligence dell’Spla e ora a capo dell’Splm ad Abyei – questa regione farà parte del sud. El Bashir ha fatto di Abyei una guerra 'sintetica', finta, costruita a tavolino, ma noi, che abbiamo camminato per anni lungo tutto il territorio e conosciamo ogni sasso delle aree contestate, vinceremo».

La debolezza dei partiti politici, la nazionalità, la moneta, la formazione di un servizio pubblico qualificato, la sicurezza alimentare e l’acqua, sono solo alcune delle ulteriori questioni che dovranno essere risolte dal Governo del Sud Sudan (GoSS). «Non m’illudo riguardo alla nostra indipendenza, ci vorrà del tempo per costruire una vera nazione – conclude Lino – ma bisogna avere fiducia e lavorare per ottenere ciò che si desidera. L’indipendenza di nessun Paese, d’altronde, è mai stata una cosa semplice».

Intervista al vicepresidente Machar

«Paese più sicuro e governo più democratico Il petrolio? È nostro e non lo daremo al Nord»



DA JUBA

Q uale vicepresidente del Sud Sudan, Riek Machar Teny, di etnia Nuer, è considerato un eroe dell’indipendenza da alcuni, e una personalità molto controversa da altri. Pur essendo stato uno dei primi membri nell’Esercito per la liberazione del popolo sudanese (Spla), originatosi sotto la guida del defunto leader John Garang, agli inizi degli anni Novanta Machar si è distaccato dalla politica di Garang per iniziare una guerriglia che proponeva un’auto-determinazione del Sud Sudan e la completa indipendenza dal Nord.

Lei ha finalmente ottenuto quello che voleva. Che cosa prova ora che il Sud Sudan ha conquistato l’indipendenza?

Sono molto eccitato. Lo siamo tutti, questo è un sogno diventato realtà. Ora comincia un’altra fase del processo. Abbiamo bisogno di democratizzare il nostro governo di modo che tutti siano uguali davanti alla legge. Dobbiamo costruire scuole per istruire le generazioni future. Ed è necessario che il Paese diventi un luogo sicuro di modo da rendere più accessibili le nostre risorse agli investitori. Imprese difficili, che molti nostri cittadini vorrebbero risolte in un anno. Staremo a vedere.

Recentemente ci sono stati degli scontri con i soldati delle Forze armate sudanesi (Saf) che dal sud sono stati invitati a ritornare al nord. Si rischiano altre violenze?


Sono previsioni difficili. L’Accordo di pace comprensivo (Cpa) del 2005 afferma che, in caso di secessione, le Saf sono tenute a dispiegare i loro soldati al nord. Questo non è ancora avvenuto, e al momento sono in corso trattative per una possibile integrazione di queste forze all’interno del nostro esercito. Penso che l’ultima parola spetti comunque a noi del sud.

Ci sono vari focolai di ribellione che hanno visto

aumentare l’insicurezza. Come pensa di affrontarli?


Attraverso la negoziazione. Sebbene non siano tuttora chiari gli avvenimenti, il cessate il fuoco è stato tradito da entrambe le parti. Il generale George Athor, a capo della ribellione, non era solo un mio compagno in battaglia, ma anche un amico; penso quindi che riusciremo a trovare una soluzione.

Il petrolio è stato la causa di molti mali sudanesi. Come vi accorderete con Khartum?


Loro hanno gli oleodotti e le raffinerie, di cui pagheremo l’uso, ma non condivideremo i proventi petroliferi. Inoltre, tra qualche anno, ci apriremo probabilmente verso la costa del Kenya.

Vorrebbe diventare presidente?


Non dipende solo da me, ma anche dal mio partito, cui toccherà decidere riguardo alla mia candidatura. Se però vuole un’opinione strettamente personale, ammetto che sì, dopo tanti anni di lavoro mi piacerebbe diventare presidente.

 

I LEADER POSSIBILI



UNO STATO IN CERCA DI UNA GUIDA SALDA


S econdo gli analisti, pur avendo una storia comune che l’ha unita contro i nemici del nord, la leadership sud sudanese rimane comunque fragile e caratterizzata da diversi alti e bassi.

Il presidente Salva Kiir Mayardit, noto per le sue vittorie militari, non è sempre riuscito a figurare come il vero leader del Paese. Nel 2004 c’è stato addirittura un tentativo di rimuoverlo dalla sua poltrona, provocando la quasi disfatta del suo partito, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm). Le sue opinioni riguardo all’indipendenza sono state spesso definite «ambigue» e il suo carattere , al contrario del vice-presidente Riek Machar, è considerato «poco carismatico». È comune pensare che Kiir abbia potuto occupare la presidenza perché tutti gli altri leader dell’esercito sono morti durante il conflitto civile.

L’arcivescovo di Juba, Paulino Lukudu Loro, è tra le personalità più influenti in Sud Sudan. Alle sue messe partecipa ogni domenica gran parte della leadership politica, e la sua voce è stata una delle più ascoltate dai sud sudanesi che al 99 per cento hanno votato per l’indipendenza. Nella messa di Natale, l’arcivescovo ha dichiarato che «il referendum del Sud Sudan faceva parte del progetto di Dio per il Paese».

Pagan Amum, quale segretario dell’Splm, è una delle voci più ferme tra i leader sud sudanesi. La diplomazia, però, non sembra essere è il suo forte. Riguardo alla calda questione petrolifera, le sue parole sono state forti e chiare: «Non abbiamo alcuna intenzione di dividere i proventi del petrolio con Khartum».

(M.F.K.)

 

Le priorità: aiuto ai rifugiati lotta alla violenza istruzione e microcredito



Tra le zone più isolate del Sud Sudan, l’area di Bor e Pibor, nello Stato di Jonglei, è difficile da raggiungere, sia per via delle ultime violenze, sia per la stagione delle piogge che rende inaccessibile il territorio per la maggior parte dell’anno. È qui che Intersos ha avviato alcuni progetti volti a soccorrere una popolazione spesso emarginata dal resto del Paese. «I due principali settori che affrontiamo sono quello della protezione e dell’istruzione – spiega Ludovico Gammarelli, coordinatore delle attività di Intersos in Sud Sudan. – Inoltre, nelle prossime settimane estenderemo le nostre operazioni nelle province di Fangak e Pigi, colpite da recenti attacchi armati».

Intersos, oltre a essere presente nello Stato di Western Equatoria, ha avviato le prime operazioni in Jonglei nel 2006 attraverso il mandato dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur). I loro progetti mirano ad alleviare le sofferenze di rifugiati, sfollati e dei 'ritornati', il termine con cui si definiscono i sud sudanesi che, dopo anni passati al nord, hanno deciso di tornare a vivere nel nuovo sud Sudan indipendente. «Per quanto riguarda il settore dell’Istruzione – continua Gammarelli – ci preoccupiamo di costruire scuole, appoggiare il Ministero dell’educazione nel coordinamento con le varie istituzioni in loco, e sosteniamo la formazione di associazioni costituite da genitori e insegnanti.

Dal 2010 abbiamo inoltre aumentato la capacita di risposta di emergenza per l’educazione». Per la 'protezione', invece, Intersos intercetta e monitora i casi più vulnerabili della popolazione affetta da violenze o dalla mancanza di condizioni sociali dignitose. È stata anche aggiunta una componente psicosociale che, attraverso i vari operatori locali, aiuta i civili a superare le difficoltà quotidiane.

Intersos copnfida inoltre sul microcredito che, puntando soprattutto sulle donne, renderà più economicamente indipendenti i beneficiari.

«Nonostante i tanti ostacoli – afferma Luca Fraschini, esperto dei servizi sociali per Intersos – la partecipazione della popolazione locale è molto alta e proficua». (M.F.K.)

 

Matteo Fraschini Koffi

 

 

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