PUGLIA: Nel ghetto dei migranti: fra lavoro nero e braccianti morti nel silenzio
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per Avvenire
Tra gli schiavi aspettando il caporale
RIGNANO (FOGGIA) - Il dito indice di Aboubacar non ha più un pezzo della sua falangetta. Il sangue continua a scorrere lungo la mano del giovane nigeriano mentre si dimena e impreca contro la proprietaria del bar. Ci vogliono tre persone per tentare di calmarlo. Anche Rose, che gestisce la baracca e l’adiacente bordello, viene dalla Nigeria. È una donna sui trent’anni dalla pelle scurissima e uno sguardo che ho visto raramente tramutarsi in un sorriso. Come molte altre sue colleghe non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Né dal marito, con cui spesso si scambiano qualche sberla, né tanto meno dai clienti.
Questa sera, infatti, Rose ha morsicato il dito di Aboubacar per costringerlo a pagare il conto dei suoi amici: 5 euro. Dopo due settimane nel “ghetto” di Rignano, una baraccopoli che da 15 anni sta crescendo esponenzialmente nella provincia di Foggia, certi atteggiamenti non mi sorprendono più. Ci vogliono infatti circa due ore di duro lavoro per raccogliere 600 kg di pomodori e guadagnarsi quei preziosissimi 5 euro. Sia Rose che Aboubacar lo sanno. Ed è qui che centinaia di braccianti, soprattutto dell’Africa centrale e occidentale, si riversano appena inizia la stagione della raccolta.
Entrare nel ghetto fingendosi uno di loro è stato abbastanza facile. A tutti ripetevo la stessa storia sfruttando le mie origini africane: «Mi chiamo Koffi, vengo dal Togo, parlo solo francese e inglese, non ho documenti, e cerco lavoro». Pochi, almeno all’inizio, facevano domande. Ma rimanere dentro al ghetto è stato via via sempre più problematico. «Riuscire a lavorare quest’anno è difficile, Wallahi (lo giuro, ndr) – afferma Abdullah, 28 anni, originario della Guinea Conakry ma residente in Italia da cinque anni (il nome, come quello degli altri personaggi incontrati, è volutamente alterato, ndr) –. Siamo sempre di più a venire qui per lavoro e non c’è stata ancora una goccia di pioggia». La pioggia, infatti, costringe il 'padrone' a sfruttare di più la manodopera dei braccianti evitando di usare le macchine. Ma la stagione è una delle più calde che ci siano state. E in due settimane la raccolta ha già ucciso quattro braccianti: due africani, un rumeno e un’italiana. «Oggi non sono riuscito a lavorare – ammette Salif, venticinquenne maliano dal corpo robusto –. La giornata di ieri mi ha reso le gambe tanto dure da non riuscire a muoverle». Questo tipo di lavoro non è per tutti, infatti. Non importa quanto uno sia forte o debole, alto o basso, magro o grasso. Solo l’abitudine a lavorare in campagna ti salva. C’è chi raccoglie una sola volta e chi non supera una settimana. Chi riesce a lavorare durante l’intera stagione è qualcuno che fin da piccolo, sotto il sole africano, viveva in campagna e seguiva l’esempio dei genitori e dei nonni. Il migliore dei braccianti sembra essere un ghanese soprannominato “38 cassoni”, poiché in un solo giorno riesce a riempire 38 casse di pomodori. Un record per la mag- gior parte dei braccianti che riesce a riempirne al massimo una decina. «Tu vuoi lavorare in campagna?», mi domanda Charles, un caposquadra ghanese, mentre mi guarda incredulo dall’alto in basso. «No, tu non ce la fai, ti darò un lavoro più leggero, magari vicino alla macchina ». Mi sento un po’ offeso. Charles vive in Italia da otto anni ed è in diretto contatto con il proprietario italiano di alcuni campi situati intorno a Lucera. Nella cittadina ha una casa in cui alloggia una ventina di braccianti che vengono al ghetto solo il sabato sera per poi tornare a Lucera la domenica mattina presto. Pur non avendo rifiutato i miei 30 euro, il costo di un materasso al ghetto per l’intera stagione, Charles si rifiuta di credere che io sia un buon investimento. Non lo biasimo. La pressione è altissima, sia da parte dei braccianti che dell’azienda. «Sto aspettando un camion da Napoli – mi assicura – e quando arriva dobbiamo riempirlo in una sola giornata. Quindi, dormi qua al ghetto e sii paziente».
Mi alzo spesso alle 4 del mattino per vedere i furgoni strapieni di questi schiavi dell’era moderna che partono per le campagne. Il capo- squadra africano, a volte accompagnato da un italiano, chiama le persone una ad una. Una pila illumina l’elenco di braccianti scritto su un foglio e il sacchetto che contiene i documenti di ognuno. «Koffi, non ti preoccupare se non hai il documento – afferma Charles – ti do quello di uno dei miei lavoratori, chi vuoi che se ne accorga».
Ogni mattina verso le 8 chiamo Sidibé. Nonostante i suoi vent’anni, questo giovane maliano è riuscito a sopravvivere alla traversata del Sahara, all’inizio della guerra in Libia, e agli ultimi quattro anni in Italia. Ha il permesso di soggiorno, ma non la patente o i documenti dell’auto che utilizza come taxi: 10 euro per ogni corsa dal ghetto a Foggia. Suo cugino Malik, poco più grande di lui, è completamente in regola, sebbene abbia pagato 550 euro per la patente comprata in una scuola guida di Salerno. Si è fatto mandare i soldi dalla sua famiglia in Mali. Malik guida ogni giorno dalle 6 del mattino fino al tramonto. «Sono venuto al ghetto per la prima volta l’anno scorso – mi racconta mentre ci dirigiamo verso Foggia – ma ho passato ogni notte nell’auto perché mi dà fastidio dormire con altra gente. Quest’anno invece ho una stanza che condivido con la mia ragazza». Dopo avermi lasciato nei pressi della stazione, mi imbuco nelle viuzze della città, cambiando ogni volta tragitto e controllando di non essere seguito. I ragazzi del ghetto che non riescono a lavorare in campagna lavorano a Foggia. Alcuni lavano i vetri, altri chiedono semplicemente l’elemosina come fanno molti romeni, bulgari e italiani. Io passo alcune ore in un appartamento a scrivere un diario e a recuperare le ore di sonno perse al ghetto, dove nella stanza di due metri per sei, fatta di cartoni, qualche telo e assi di legno, dormiamo spesso in sei. Nel pomeriggio richiamo Sidibé che, dopo aver raccolto altri clienti, mi riporta al ghetto.
L’ennesima rissa è scoppiata davanti al bar di un italiano. Alcuni ragazzi della Costa d’Avorio vengono allontanati. I litigi sono solitamente legati alla prostituzione o alla droga. Questa mattina decido di svegliarmi alle 3,30. Centinaia di braccianti, muniti di taniche per l’acqua e un panino, stanno già aspettando di essere chiamati. Per le prossime 4 ore, uno ad uno, i furgoni si allontaneranno in una nuvola di polvere. Per loro comincia una giornata di lavoro da schiavi sotto il sole.
Negozi, ristoranti, bordelli, una moschea e una radio
Sebbene non sia mai stato effettuato un serio censimento del ghetto, si stima che i residenti siano almeno 1,500 durante la stagione della raccolta. Mentre negli anni passati c’erano soprattutto africani originari del Burkina Faso, ora sono i maliani ad essere i più numerosi, seguiti da camerunesi, ghanesi, senegalesi, nigeriani, e altri Paesi dell’Africa centrale e occidentale. I togolesi sono molto pochi. La maggioranza degli abitanti del ghetto sono braccianti, ma sempre più africani che hanno già lavoro altrove vengono semplicemente per vivere qualche giorno nella cosiddetta “Africa della Puglia”. All’interno del ghetto si sono formati negozi, modesti ristoranti, una moschea e una radio. Alcune stanze riescono a contenere più di 40 persone. Sebbene siano state costruite delle docce, i campi attorno vengono continuamente utilizzati per urinare e defecare. La regione Puglia, invece, invia ogni mattina un camion dell’acqua. Sono inoltre presenti diverse associazioni umanitarie e politiche che lavorano al ghetto soprattutto durante il giorno.
Diario di un’inchiesta Tra domande e sospetti
Un sopralluogo preliminare era doveroso. È avvenuto grazie a un ex residente del ghetto che mi ha rapidamente fatto conoscere la zona. Ho cercato di farmi notare il meno possibile. Nei giorni seguenti mi sono fatto crescere la barba, ho comprato un cappellino, e riempito lo zainetto di tutto il necessario: lenzuola, sapone, spazzolino e dentifricio.
Ho utilizzato un’unica combinazione di vestiti (che lavavo quotidianamente) affinché si creasse di Koffi una sola immagine. L’entrata nel ghetto ho preferito farla di notte, quando c’è più confusione e si vedono meno i visi delle persone. Mi sono fatto lasciare dal taxi a un chilometro di distanza e ho camminato fino alle prime baracche. Ho chiesto di Mary, una camerunese nota per essere gentile con i nuovi arrivati. Lei voleva farmi dormire in una delle sue stanze, ma ha preferito portarmi «dai tuoi fratelli togolesi». «Altrimenti si lamentano che i camerunesi aiutano i togolesi», continuava a dirmi. Così sono passato a Komlà, togolese, sposato con Rose, la ragazza nigeriana. Insieme a un altro togolese, Komlà mi ha portato in un luogo appartato e ha cominciato a farmi alcune domande sulla mia etnia, parlandomi anche in dialetto. Il Togo, dove sono nato e ho vissuto per gli ultimi due anni e mezzo, ha una popolazione generalmente molto riservata e sospettosa. Pur rispondendogli che avevo passato la maggior parte della mia vita in Francia, Komlà mi ha creduto. Ho trascorso la prima notte in una piccola stanza del suo bordello piena di topi ma con un buon materasso. Il giorno dopo Komlà, che non aveva posto, mi ha presentato a Charles, un ghanese, con cui parlava Ewe, lo stesso dialetto della regione. Charles mi ha fatto pagare 30 euro per un materasso in una delle sue baracche. (M.F.K.)
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