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SOMALIA: Addio Mogadiscio, addio

29 Dicembre 2010

Viaggio tra ombre e rovine di una città dilaniata da 20 anni di guerriglia

Da Mogadiscio -  « S para-spara, spara anche tu se vuoi!» è l’invito del giovane I­brahim, appostato dietro un cumulo di sacchi di sabbia sistemati sul tetto di un edificio prossimo al crollo. È la vigilia di Natale nella capitale somala, e l’atmosfera è come sempre tesa. Con i suoi 27 gradi, il clima ventilato, e gli scheletri delle abitazioni in stile coloniale italiano, non è difficile comprendere come un tem­po Mogadiscio fosse la più bella città del Corno d’Africa. Ma Ibrahim questo non può saperlo, aveva solo quattro anni quan­do la Somalia fu risucchiata in un conflit­to civile che, dal 1991 ad oggi, non ha an­cora trovato una soluzione. Ora, come mi­litante del gruppo islamico moderato e fi­lo- governativo dell’Ahlu Sunna Waljamaa (Aswj), Ibrahim combatte giorno e notte contro i ribelli.

La sua proposta di «sparare verso nord», avanzata con un leggero sorriso sulle lab­bra, ti fa tristemente capire quanto que­sta guerra sia ormai diventata un gioco. Un gioco indiscriminato e molto, molto pericoloso. Da quando la settimana scor­sa una parte dei ribelli dell’Hizbul Islam ha annunciato di essersi unita ai più e­stremisti di al Shabaab, il Governo federale di transizione somalo ( Tfg) ha un nuovo fronte da sconfiggere. Sebbene molti uf­ficiali somali non sembrino particolar­mente preoccupati rispetto a quest’ulti­mo cambiamento, le Nazioni unite hanno approvato un aumento delle forze di pa­ce dell’Unione africana (Amisom), con l’o­biettivo di conquistare altri blocchi della capitale. Oltre agli attuali 8 mila soldati burundesi e ugandesi dell’Amisom, ne so­no previsti altri 4 mila entro la fine del­l’anno.

Sono però in molti a non riporre alcuna fi­ducia nell’arrivo di nuove truppe. «Non serviranno a niente – assicura un ufficia­le del ministero dell’informazione che preferisce rimanere anonimo. – Le trup­pe Amisom potranno anche arrivare a 50 mila soldati, ma non riusciranno a vince­re i ribelli. Abbiamo bisogno dell’Etiopia, i loro soldati sì che sanno combattere nel­la boscaglia e conoscono bene il territo­rio somalo – insiste la fonte. – Se le trup­pe etiopiche entrassero in Somalia, i ri­belli se la darebbero subito a gambe leva­te ». L’Etiopia è infatti considerata dagli a­nalisti come una delle principali cause che hanno provocato la nascita dell’attuale ri­bellione di matrice islamica fondamenta­lista. Quando nel 2007 le truppe etiopiche sconfissero l’Unione delle corti islamiche (Icu) e occuparono la Somalia, aiutarono gli Stati Uniti e alcuni paesi scandinavi a installare il Tfg. Le Icu, divise in varie fa­zioni, diedero origine al gruppo ribelle al Shabaab, ora alleato di al Qaeda. Le stes­se divisioni interne al Tfg portarono però a diverse crisi istituzionali, sia nel parla­mento sia nel governo, quest’ultimo ap­pena rinominato dal nuovo primo mini­stro, il somalo-americano Mohamed Ab­dullahi Mohamed 'Formaggio'.

«Sono tutti ministri tecnocrati che man­cano dalla Somalia da vent’anni – prote­sta Ali Abdullah Obsole, uno degli oltre 500 deputati. – Dubito fortemente che riu­sciranno a cambiare il Paese entro l’ago­sto del 2011, la data in cui, da transitorio, il governo dovrà diventare effettivo». Ed è in quest’ultimo periodo che Mogadiscio sembra trascorrere il periodo più buio del­la sua drammatica storia. «Dobbiamo in­culcare una nuova mentalità nei giovani – spiega Mohamed Yusuf, direttore del più grande ospedale di Mogadiscio, il Medina. – Il ventre del terrorismo sta fagocitando molti ragazzi che sono disoccupati e non hanno educazione. È davvero una trage­dia ». Al Medina il personale è sempre pronto a soccorrere i feriti che, in man­canza di ambulanze, vengono spesso tra­sportati nei bauli delle auto avvolti da un materasso. Le vittime sono soprattutto ci­vili che non hanno niente a che fare con i combattimenti. «Tre giorni fa, alcuni sol­dati hanno trovato una mina che gli è e­splosa tra le mani, uccidendo quattro di loro e bruciando l’intero corpo di mia so­rella – racconta con un filo di voce Ahmed, seduto vicino al letto della paziente. – Lei stava solo andando al mercato». A 13 an­ni Dunia, la sorella di Ahmed, è ustionata e bendata da capo a piedi. Non può muo­versi né parlare. Solo i suoi dolci occhi, che s’intravedono dietro la zanzariera, danno qualche segno di vita. Venti minu­ti dopo arriva invece un anziano colpito al­la testa da un proiettile. Sta perdendo mol­to sangue e i medici non sembrano avere molte speranze. «Stava ritornando a casa nella zona occupata dai ribelli – spiega A­li, la persona che ha messo a disposizio­ne la sua macchina per trasportarlo di fret­ta in ospedale. – Probabilmente sono sta­te le forze Amisom o i governativi a col­pirlo ». Nonostante i ribelli usino spesso i civili come scudi umani, sono sempre di più i somali che si lamentano di come gli spa­ri provenienti dalle armi più sofisticate dell’Amisom continuino a mietere vitti­me. La crisi somala non permette quindi di fare previsioni. Mogadiscio rimane una città proibita, visitata solo raramente per qualche giorno dai membri della comu­nità internazionale, e dagli stessi somali che fuggiti all’estero. Quasi tutti gli uffici umanitari per la Somalia risiedono a Nai­robi, dove la comunità internazionale può avvantaggiarsi di sicurezza, ville, e safari durante il fine settimana.

«Ci sentiamo abbandonati, soprattutto dall’Italia – afferma il deputato Hagi Sciuk­ri, presidente della commissione estera del parlamento per l’Europa. – Con una lettera firmata da 115 parlamentari, l’an­no scorso abbiamo chiesto alla Farnesina di riallacciare il nostro rapporto storico. Per il momento, però, non abbiamo an­cora ricevuto risposta». A 72 anni, Sciuk­ri è il più vecchio parlamentare e uno dei pochi somali che parlano ancora italiano. Lo chiamano 'l’archivio'. Seduto al tavo­lino di un hotel di Mogadiscio, ricorda con nostalgia i tempi in cui l’Italia, ex poten­za coloniale della Somalia centro-meri­dionale, aveva ancora interesse nel Pae­se. «Continuando così – si domanda Sciuk­ri – chissà se le nuove generazioni d’ita­liani sapranno in quale parte dell’Africa si trovi il nostro sfortunato Paese».

 

«Abbiamo bisogno dell’aiuto italiano»

Il ministro somalo delle Comunicazioni chiede appoggio al nostro Paese per istruzione e sicurezza

 

Da quando è diventato ministro per l’infor­mazione, la posta e le telecomunicazioni, Abdulkareem Jama, 50 anni, è considerato il membro più potente del nuovo Governo federa­le di transizione somalo. Dopo aver lavorato e vis­suto durante gli ultimi vent’anni negli Stati Uniti, Jama afferma di essere ritornato in Somalia per da­re un contributo al Paese che l’ha partorito e in cui un giorno la sua famiglia potrà ritornare.

La Somalia è da diversi anni sino­nimo di disperazione e fallimento sotto quasi ogni punto di vista, co­sa l’ha spinta a ritornare?


Le ragioni principali sono due. La prima riguarda il fatto che a 50 an­ni, dopo aver lavorato per oltre 30 anni nel settore dell’amministra­zione di varie ditte che si occupa­vano di tecnologia e petrolio, mi sono stancato della routine pro­fessionale. Da qualche anno non cercavo più un guadagno econo­mico, ma morale. Pochi giorni fa, per esempio, ab­biamo scarcerato dei giovani protestanti che era­no in detenzione dall’era del presidente Abdullahi Yusuf. Non avevano fatto niente di male e, dopo a­ver analizzato il loro caso, li abbiamo liberati. Ti senti meglio quando sai di aver fatto la cosa giu­sta. La seconda ragione riguarda la mia famiglia: ho figli e nipoti che sono sempre vissuti all’estero. Se il processo politico lo permetterà, vorrei che un giorno ritornassero a vedere e vivere nella loro ter­ra ancestrale.

Molti somali contestano che questo nuovo go­verno, in vita da solo qualche settimana, sia com­posto di ministri che hanno vissuto la maggior parte della loro vita fuori dalla Somalia. Riuscire­te veramente a cambiare le cose?

Ci stiamo provando. La gente dovrebbe iniziare a chiedersi cosa abbiamo fatto in questi anni fuori dalla Somalia. Siamo riusciti a studiare e a lavora­re, acquisendo importanti capacità che erano ra­re nei governi somali precedenti. Alcuni cambia­menti sono infatti stati già effettuati. Dai 40 mini­stri di prima, per esempio, ora siamo solo in 18. Un altro cambiamento, di cui mi sono personalmen­te occupato, riguarda il cibo che veniva consuma­to dai circa 200 addetti ai vari mini­steri: il costo di circa 20 mila dollari al mese, ora, con le stesse razioni, è diminuito di oltre il 40%. Sebbene i tempi siano stretti, le cose stanno cambiando.

Lei conosce della storica relazione che lega la Somalia all’Italia; crede sia il momento di riavviarla?


Assolutamente. In questi anni l’Ita­lia ci ha aiutato pagando i salari del­le forze militari e ha contribuito at­traverso la cooperazione umanita­ria ad alcuni progetti sanitari, e glie­ne siamo molto grati. Data però la tragica situazione in cui ci troviamo, avremmo bisogno di essere maggiormente soste­nuti.

Quali proposte avrebbe riguardo a un possibile intervento italiano?


Il punto di partenza più importante si tradurreb­be nel riaprire l’ambasciata italiana, così da riav­viare sul posto una relazione diplomatica. In se­guito, sarebbe molto utile che l’Italia offrisse bor­se di studio ai giovani e si preoccupasse di rico­struire l’università nazionale su cui aveva una gran­de influenza. Infine, la questione della sicurezza potrebbe essere affrontata fornendo addestra­mento e salari all’esercito somalo. So perfettamente che sono tutte sfide piuttosto difficili, ma ci terre­mo molto ad avere una vostra opinione. 

 
 


LE RADIO / AGLI INTEGRALISTI NON PIACE LA MUSICA

 

All’inizio della ribellione degli integralisti islamici nel 2007, sono 20 i giornalisti uccisi a causa della loro professione. Poiché sia al Shabaab sia Hizbul Islam promuovono una versione severa della legge coranica e rifiutano qualsiasi influenza occidentale, sono solo due le radio di Mogadiscio che si sentono abbastanza sicure da trasmettere musica. La prima è Radio Mogadishu, la più vecchia e ascoltata stazione della città, situata all’interno del ministero dell’informazione e di proprietà del governo. Lo stesso vale per Radio Shabelle, che questo mese ha vinto il premio per la libertà di stampa consegnatogli da Reporter senza frontiere. Quest’ultima è stata costretta a cambiare sede, rifugiandosi nella zona protetta dal governo, dopo che 5 dei suoi giornalisti sono stati uccisi a Mogadiscio e Afgoye. Radio Hurmo, tra le emittenti a cui è invece proibito mettere in onda della musica, per aggirare il divieto impostogli dai ribelli usa suoni come il campanello di una bicicletta, il rumore dei colpi di mortaio, il verso degli animali, o lo scorrere dell’acqua. Le continue minacce da parte dei ribelli sono comunicate via sms e costringono la maggioranza dei giornalisti a dormire in ufficio, tornando a casa solo poche volte all’anno.

 
 

LA STORIA / DOPO SIAD BARRE SOLO TENEBRE

 

Il 26 gennaio 2011 marcherà il ventesimo anniversario dalla caduta del dittatore somalo Mohamed Siad Barre. Così iniziò il conflitto civile in Somalia, frutto di diverse tensioni tra i diversi clan, e internazionali, che covavano già da diversi anni. La carestia e i continui combattimenti, hanno spinto gli Usa a intervenire nel ’93, e a lasciare conseguentemente la scena dopo che 19 dei loro soldati furono massacrati per le strade di Mogadiscio. Nello stesso anno, gli italiani vengono attaccati al Checkpoint Pasta, nominato così perché vicino al vecchio pastificio. Il bilancio fu di 3 morti e 36 feriti italiani, e di un numero imprecisato di vittime somale. Il potere a Mogadiscio è stato preso a turno da signori della guerra, politici, militari, e uomini d’affari. Con l’attuale governo transitorio nominato il 12 novembre di quest’anno dal nuovo primo ministro, Mohamed Abdullahi Mohamed 'Formaggio', la Somalia è al sedicesimo tentativo di formare un’amministrazione accettata dalla maggioranza. Il mandato del Governo federale di transizione somalo (Tfg) scadrà ad agosto del 2011, dopodiché, se la situazione lo permetterà, verranno indette delle elezioni. Nella capitale Mogadiscio, i soldati del Tfg, insieme alle forze dell’Unione africana (Amisom) e ai militanti filogovernativi dell’Ahlu Sunna Waljamaa, controllano circa metà del territorio.

Matteo Fraschini Koffi

 

 

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