SOMALIA: Addio Mogadiscio, addio
Viaggio tra ombre e rovine di una città dilaniata da 20 anni di guerriglia
Da Mogadiscio - « S para-spara, spara anche tu se vuoi!» è l’invito del giovane Ibrahim, appostato dietro un cumulo di sacchi di sabbia sistemati sul tetto di un edificio prossimo al crollo. È la vigilia di Natale nella capitale somala, e l’atmosfera è come sempre tesa. Con i suoi 27 gradi, il clima ventilato, e gli scheletri delle abitazioni in stile coloniale italiano, non è difficile comprendere come un tempo Mogadiscio fosse la più bella città del Corno d’Africa. Ma Ibrahim questo non può saperlo, aveva solo quattro anni quando la Somalia fu risucchiata in un conflitto civile che, dal 1991 ad oggi, non ha ancora trovato una soluzione. Ora, come militante del gruppo islamico moderato e filo- governativo dell’Ahlu Sunna Waljamaa (Aswj), Ibrahim combatte giorno e notte contro i ribelli.
La sua proposta di «sparare verso nord», avanzata con un leggero sorriso sulle labbra, ti fa tristemente capire quanto questa guerra sia ormai diventata un gioco. Un gioco indiscriminato e molto, molto pericoloso. Da quando la settimana scorsa una parte dei ribelli dell’Hizbul Islam ha annunciato di essersi unita ai più estremisti di al Shabaab, il Governo federale di transizione somalo ( Tfg) ha un nuovo fronte da sconfiggere. Sebbene molti ufficiali somali non sembrino particolarmente preoccupati rispetto a quest’ultimo cambiamento, le Nazioni unite hanno approvato un aumento delle forze di pace dell’Unione africana (Amisom), con l’obiettivo di conquistare altri blocchi della capitale. Oltre agli attuali 8 mila soldati burundesi e ugandesi dell’Amisom, ne sono previsti altri 4 mila entro la fine dell’anno.
Sono però in molti a non riporre alcuna fiducia nell’arrivo di nuove truppe. «Non serviranno a niente – assicura un ufficiale del ministero dell’informazione che preferisce rimanere anonimo. – Le truppe Amisom potranno anche arrivare a 50 mila soldati, ma non riusciranno a vincere i ribelli. Abbiamo bisogno dell’Etiopia, i loro soldati sì che sanno combattere nella boscaglia e conoscono bene il territorio somalo – insiste la fonte. – Se le truppe etiopiche entrassero in Somalia, i ribelli se la darebbero subito a gambe levate ». L’Etiopia è infatti considerata dagli analisti come una delle principali cause che hanno provocato la nascita dell’attuale ribellione di matrice islamica fondamentalista. Quando nel 2007 le truppe etiopiche sconfissero l’Unione delle corti islamiche (Icu) e occuparono la Somalia, aiutarono gli Stati Uniti e alcuni paesi scandinavi a installare il Tfg. Le Icu, divise in varie fazioni, diedero origine al gruppo ribelle al Shabaab, ora alleato di al Qaeda. Le stesse divisioni interne al Tfg portarono però a diverse crisi istituzionali, sia nel parlamento sia nel governo, quest’ultimo appena rinominato dal nuovo primo ministro, il somalo-americano Mohamed Abdullahi Mohamed 'Formaggio'.
«Sono tutti ministri tecnocrati che mancano dalla Somalia da vent’anni – protesta Ali Abdullah Obsole, uno degli oltre 500 deputati. – Dubito fortemente che riusciranno a cambiare il Paese entro l’agosto del 2011, la data in cui, da transitorio, il governo dovrà diventare effettivo». Ed è in quest’ultimo periodo che Mogadiscio sembra trascorrere il periodo più buio della sua drammatica storia. «Dobbiamo inculcare una nuova mentalità nei giovani – spiega Mohamed Yusuf, direttore del più grande ospedale di Mogadiscio, il Medina. – Il ventre del terrorismo sta fagocitando molti ragazzi che sono disoccupati e non hanno educazione. È davvero una tragedia ». Al Medina il personale è sempre pronto a soccorrere i feriti che, in mancanza di ambulanze, vengono spesso trasportati nei bauli delle auto avvolti da un materasso. Le vittime sono soprattutto civili che non hanno niente a che fare con i combattimenti. «Tre giorni fa, alcuni soldati hanno trovato una mina che gli è esplosa tra le mani, uccidendo quattro di loro e bruciando l’intero corpo di mia sorella – racconta con un filo di voce Ahmed, seduto vicino al letto della paziente. – Lei stava solo andando al mercato». A 13 anni Dunia, la sorella di Ahmed, è ustionata e bendata da capo a piedi. Non può muoversi né parlare. Solo i suoi dolci occhi, che s’intravedono dietro la zanzariera, danno qualche segno di vita. Venti minuti dopo arriva invece un anziano colpito alla testa da un proiettile. Sta perdendo molto sangue e i medici non sembrano avere molte speranze. «Stava ritornando a casa nella zona occupata dai ribelli – spiega Ali, la persona che ha messo a disposizione la sua macchina per trasportarlo di fretta in ospedale. – Probabilmente sono state le forze Amisom o i governativi a colpirlo ». Nonostante i ribelli usino spesso i civili come scudi umani, sono sempre di più i somali che si lamentano di come gli spari provenienti dalle armi più sofisticate dell’Amisom continuino a mietere vittime. La crisi somala non permette quindi di fare previsioni. Mogadiscio rimane una città proibita, visitata solo raramente per qualche giorno dai membri della comunità internazionale, e dagli stessi somali che fuggiti all’estero. Quasi tutti gli uffici umanitari per la Somalia risiedono a Nairobi, dove la comunità internazionale può avvantaggiarsi di sicurezza, ville, e safari durante il fine settimana.
«Ci sentiamo abbandonati, soprattutto dall’Italia – afferma il deputato Hagi Sciukri, presidente della commissione estera del parlamento per l’Europa. – Con una lettera firmata da 115 parlamentari, l’anno scorso abbiamo chiesto alla Farnesina di riallacciare il nostro rapporto storico. Per il momento, però, non abbiamo ancora ricevuto risposta». A 72 anni, Sciukri è il più vecchio parlamentare e uno dei pochi somali che parlano ancora italiano. Lo chiamano 'l’archivio'. Seduto al tavolino di un hotel di Mogadiscio, ricorda con nostalgia i tempi in cui l’Italia, ex potenza coloniale della Somalia centro-meridionale, aveva ancora interesse nel Paese. «Continuando così – si domanda Sciukri – chissà se le nuove generazioni d’italiani sapranno in quale parte dell’Africa si trovi il nostro sfortunato Paese».
«Abbiamo bisogno dell’aiuto italiano»
Il ministro somalo delle Comunicazioni chiede appoggio al nostro Paese per istruzione e sicurezza
Da quando è diventato ministro per l’informazione, la posta e le telecomunicazioni, Abdulkareem Jama, 50 anni, è considerato il membro più potente del nuovo Governo federale di transizione somalo. Dopo aver lavorato e vissuto durante gli ultimi vent’anni negli Stati Uniti, Jama afferma di essere ritornato in Somalia per dare un contributo al Paese che l’ha partorito e in cui un giorno la sua famiglia potrà ritornare.
La Somalia è da diversi anni sinonimo di disperazione e fallimento sotto quasi ogni punto di vista, cosa l’ha spinta a ritornare?
Le ragioni principali sono due. La prima riguarda il fatto che a 50 anni, dopo aver lavorato per oltre 30 anni nel settore dell’amministrazione di varie ditte che si occupavano di tecnologia e petrolio, mi sono stancato della routine professionale. Da qualche anno non cercavo più un guadagno economico, ma morale. Pochi giorni fa, per esempio, abbiamo scarcerato dei giovani protestanti che erano in detenzione dall’era del presidente Abdullahi Yusuf. Non avevano fatto niente di male e, dopo aver analizzato il loro caso, li abbiamo liberati. Ti senti meglio quando sai di aver fatto la cosa giusta. La seconda ragione riguarda la mia famiglia: ho figli e nipoti che sono sempre vissuti all’estero. Se il processo politico lo permetterà, vorrei che un giorno ritornassero a vedere e vivere nella loro terra ancestrale.
Molti somali contestano che questo nuovo governo, in vita da solo qualche settimana, sia composto di ministri che hanno vissuto la maggior parte della loro vita fuori dalla Somalia. Riuscirete veramente a cambiare le cose?
Ci stiamo provando. La gente dovrebbe iniziare a chiedersi cosa abbiamo fatto in questi anni fuori dalla Somalia. Siamo riusciti a studiare e a lavorare, acquisendo importanti capacità che erano rare nei governi somali precedenti. Alcuni cambiamenti sono infatti stati già effettuati. Dai 40 ministri di prima, per esempio, ora siamo solo in 18. Un altro cambiamento, di cui mi sono personalmente occupato, riguarda il cibo che veniva consumato dai circa 200 addetti ai vari ministeri: il costo di circa 20 mila dollari al mese, ora, con le stesse razioni, è diminuito di oltre il 40%. Sebbene i tempi siano stretti, le cose stanno cambiando.
Lei conosce della storica relazione che lega la Somalia all’Italia; crede sia il momento di riavviarla?
Assolutamente. In questi anni l’Italia ci ha aiutato pagando i salari delle forze militari e ha contribuito attraverso la cooperazione umanitaria ad alcuni progetti sanitari, e gliene siamo molto grati. Data però la tragica situazione in cui ci troviamo, avremmo bisogno di essere maggiormente sostenuti.
Quali proposte avrebbe riguardo a un possibile intervento italiano?
Il punto di partenza più importante si tradurrebbe nel riaprire l’ambasciata italiana, così da riavviare sul posto una relazione diplomatica. In seguito, sarebbe molto utile che l’Italia offrisse borse di studio ai giovani e si preoccupasse di ricostruire l’università nazionale su cui aveva una grande influenza. Infine, la questione della sicurezza potrebbe essere affrontata fornendo addestramento e salari all’esercito somalo. So perfettamente che sono tutte sfide piuttosto difficili, ma ci terremo molto ad avere una vostra opinione.
LE RADIO / AGLI INTEGRALISTI NON PIACE LA MUSICA
All’inizio della ribellione degli integralisti islamici nel 2007, sono 20 i giornalisti uccisi a causa della loro professione. Poiché sia al Shabaab sia Hizbul Islam promuovono una versione severa della legge coranica e rifiutano qualsiasi influenza occidentale, sono solo due le radio di Mogadiscio che si sentono abbastanza sicure da trasmettere musica. La prima è Radio Mogadishu, la più vecchia e ascoltata stazione della città, situata all’interno del ministero dell’informazione e di proprietà del governo. Lo stesso vale per Radio Shabelle, che questo mese ha vinto il premio per la libertà di stampa consegnatogli da Reporter senza frontiere. Quest’ultima è stata costretta a cambiare sede, rifugiandosi nella zona protetta dal governo, dopo che 5 dei suoi giornalisti sono stati uccisi a Mogadiscio e Afgoye. Radio Hurmo, tra le emittenti a cui è invece proibito mettere in onda della musica, per aggirare il divieto impostogli dai ribelli usa suoni come il campanello di una bicicletta, il rumore dei colpi di mortaio, il verso degli animali, o lo scorrere dell’acqua. Le continue minacce da parte dei ribelli sono comunicate via sms e costringono la maggioranza dei giornalisti a dormire in ufficio, tornando a casa solo poche volte all’anno.
LA STORIA / DOPO SIAD BARRE SOLO TENEBRE
Il 26 gennaio 2011 marcherà il ventesimo anniversario dalla caduta del dittatore somalo Mohamed Siad Barre. Così iniziò il conflitto civile in Somalia, frutto di diverse tensioni tra i diversi clan, e internazionali, che covavano già da diversi anni. La carestia e i continui combattimenti, hanno spinto gli Usa a intervenire nel ’93, e a lasciare conseguentemente la scena dopo che 19 dei loro soldati furono massacrati per le strade di Mogadiscio. Nello stesso anno, gli italiani vengono attaccati al Checkpoint Pasta, nominato così perché vicino al vecchio pastificio. Il bilancio fu di 3 morti e 36 feriti italiani, e di un numero imprecisato di vittime somale. Il potere a Mogadiscio è stato preso a turno da signori della guerra, politici, militari, e uomini d’affari. Con l’attuale governo transitorio nominato il 12 novembre di quest’anno dal nuovo primo ministro, Mohamed Abdullahi Mohamed 'Formaggio', la Somalia è al sedicesimo tentativo di formare un’amministrazione accettata dalla maggioranza. Il mandato del Governo federale di transizione somalo (Tfg) scadrà ad agosto del 2011, dopodiché, se la situazione lo permetterà, verranno indette delle elezioni. Nella capitale Mogadiscio, i soldati del Tfg, insieme alle forze dell’Unione africana (Amisom) e ai militanti filogovernativi dell’Ahlu Sunna Waljamaa, controllano circa metà del territorio.
Matteo Fraschini Koffi
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