RUANDA: Ricominciare, insieme
per VENTIQUATTRO
Mentre il paese cresce e attira investimenti, sedici anni dopo la guerra civile che fece un milione di morti, i sopravvissuti e i carnefici appena usciti dal carcere cercano di voltare pagina. Anche scegliendo di convivere nei villaggi della riconciliazione.
NAIROBI, Kenya – I piedi di Jean Baptiste affondano con veemenza nel fango, quasi volessero calpestare e sotterrare tutti i brutti ricordi del passato. L’impasto per i mattoni di una nuova casa è ormai pronto: una modesta abitazione sarà per lui il nuovo punto di partenza. Solo così riuscirà ad alleviare il senso di colpa che gli logora l’anima quando ripensa al genocidio, lo sterminio avvenuto in Ruanda nella primavera del 1994, che nell’arco di cento giorni ha cancellato quasi un milione di civili delle etnie locali, tra tutsi e hutu moderati. “Il giovane proprietario oè un orfano perché io sono quello che ha ucciso tutta la sua famiglia,” afferma Jean Baptiste, “Costruire insieme a lui la sua nuova casa mi aiuta a superare la vergogna e il rimorso che mi accompagna ogni giorno.” Come membro dell’associazione locale ‘Uyagi Tuvindimwe’ (‘Siamo tutti fratelli’, nella lingua locale Kyniarwanda), Jean Baptiste ha lavorato per giorni nel villaggio di Rwamagana, a un’ora e mezza dalla capitale Kigali, fianco a fianco con vittime e carnefici. Dopo aver passato tredici anni in prigione, il giovane è stato rilasciato quando ha confessato i suoi crimini davanti al Gacaca (pronunciato Gaciacia), il sistema giudiziario tradizionale basato su assemblee pubbliche locali. I Gacaca sono stati riammessi dal Presidente Paul Kagame poco dopo la fine del genocidio, con l’intento di decongestionare le prigioni sovraffollate. È attraverso queste corti popolari che sono stati processati migliaia di responsabili delle atroci violenze di sedici anni fa. Più di 200 mila persone erano state arrestate quando i ribelli del Fronte patriottico ruandese guidato da Kagame presero il potere. Dal 2003, attraverso questi tribunali tradizionali, circa 70 mila prigionieri sono stati rilasciati e reintegrati nelle loro comunità di un tempo. Alcuni degli ex prigionieri hanno iniziato a vivere una nuova vita nei “villaggi della riconciliazione” come quello di Rwamagana. “Il ragazzo che stiamo aiutando era il primogenito della sua famiglia, ma io gli ho negato il diritto di conoscerla,” continua Jean Baptiste, che al tempo del genocidio era lui stesso poco più che un bambino, “Aiutarlo a costruire la sua nuova abitazione è il minimo che possa fare.” Il villaggio di Rwamagana è appunto una delle iniziative adottate da Uyagi Tuvindimwe per contribuire al processo di riconciliazione avviato da qualche anno nel Paese. L’obbiettivo è di riunire le comunità attraverso l’aiuto reciproco indirizzato verso problemi sociali concreti, quali la povertà o la mancaza di abitazioni dignitose. “È troppo facile dire che in Ruanda dovremmo tornare a vivere in pace tra di noi,” spiega Emmanuel Rukera, anche lui membro dello gruppo, “Le parole non servono a nulla quando le usiamo per comunicare con una persona che non mangia da giorni, o a cui manca una casa e una famiglia. È quindi neccessario incidere sul presente con azioni tangibili.” Anno dopo anno, i villaggi della riconciliazione cercano di mettere radici in varie zone del Paese. Con un Ruanda che , per inciso, nel dopo guerra ha dato prova di grande orgoglio. Appena arrivato al potere, Kagame ha infatti traghettato la nazione verso l’economia di mercato, liberalizzando il commercio e il tasso di cambio. Il risultato? Una crescita media annua del Pil del 7-8 per cento nell’ultimo decennio e la palma della Banca Mondiale (nel rapporto Doing business 2010) al Ruanda come miglior paese dove investire nell’area dell’Africa orientale. Dove prima c’erano pile di cadaveri ammassate per le strade o affondate nei letti dei fiumi, ora i sopravvissuti stanno lavorando per un futuro pacifico che non si potrebbe mai materializzare se la popolazione non fosse disposta a perdonarsi. Il principale programma a stampo religioso che si occupa dei villaggi della riconciliazione è il Prison fellowship Rwanda (Pfr). Nato un anno dopo il genocidio, il Pfr promuove una “giustizia ricostituente” che assiste i cittadini sia materialmente sia psicologicamente. La riconciliazione è in buona sostanza demandata all’iniziativa della società civile e di organizzazioni come la Pfr. “Non è una magia,” spiega il vescovo John Rucyahana, presidente del Pfr, “È un processo lento e doloroso, caratterizzato da molti alti e bassi. È la nostra realtà e noi dobbiamo andare avanti poichè non abbiamo tempo di aspettare una completa guarigione. Dobbiamo scavare e lavorare con una mano mentre ci asciughiamo le lacrime con l’altra.” Il Prf ha avviato almeno quattordici villaggi della riconciliazione. Il pimo a essere stato terminato nel 2004 è Mbyo, circa 50 km a sud di Kigali, dove hanno trovato riparo una cinquantina di nuclei familiari. “Mi domandavo spesso come avremmo potuto vivere fianco a fianco con le persone a cui avevamo inflitto così tanto dolore,” afferma Aloise, uno dei residenti di Mbyo, arrivato nel 2003 dopo nove anni di prigione, “Abbiamo però iniziato a condividere il cibo e, con l’aiuto di Dio, ci è stato possibile vivere insieme. I sopravvissuti hanno accettato di perdonarci, poiché alla fine ci ritrovavamo comunque in una situazione simile: tutto quello che avevamo è stato distrutto durante il massacro.” Janette, una ragazza trentenne vicina di casa di Aloise, è sopravvissuta alle violenze rifugiandosi in una chiesa. La sua famiglia è stata sterminata. “Quando mi hanno presentato Aloise, avevo paura che lui non perdesse tempo e uccidesse anche me,” confida, “Invece abbiamo iniziato a costruire dei mattoni insieme, e piano piano ci siamo conosciuti. Lui ha chiesto a noi sopravvissuti di essere perdonato, e ora i nostri figli giocano mentre noi lavoriamo.” Deo Gashagaza, direttore del Pfr, dà un supporto psicologico sia gli ex prigionieri sia i sopravvissuti: “In un certo senso è più facile che sia un cittadino comune a perdonare. Una persona altamente istruita e per questo dotata di maggiori convinzioni e ideologie, ha più difficoltà.” Secondo Gashagaza, il fatto che molti ruandesi, vivano in assoluta indigenza paradossalmente aiuta: “La povertà, in questo processo di riconciliazione, è un importante collante che mette tutti sullo stesso piano.” Con la progressiva scarcerazione dei responsabili del genocidio, i ruandesi sembrano comprendere che la legge non sarà mai in grado a garantire giustizia completa alle vittime, ed è quindi utile favorire la riconciliazione. “Ci sono persone che ancora non vogliono accettare ciò che è successo nel nostro paese,” commenta Thenoste Muzungu, un altro membro di Uyagi Tuvindimwe, “Ma penso che attraverso queste iniziative la gente, prima o poi, capirà meglio la nostra situazione e farà in modo che tragici eventi come questi non si ripetano mai più.” Damascene Rwasamirera, docente di storia all’università del Ruanda, è della stessa opinione: “Dobbiamo continuare a educare la nostra popolazione senza arrenderci. Se andremo avanti con la forza di volontà che abbiamo dimostrato finora, il paese non verrà ricordato solo per il genocidio. Dobbiamo dimenticare le differenti etnie e vivere la nostra vita come ruandesi.” Una sfida che passa anche da piccoli e polverosi villaggi come Mbyo e Rwamagana, dove i “pentiti” iniziano una nuova vita costruendo mattoni assieme all’ex nemico. Gomito a gomito.
Matteo Fraschini Koffi
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