Caos affido, così Duniya ha sconfitto la burocrazia
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per Avvenire
Il sistema della kafala, che prevede la tutela dei minori abbandonati nei Paesi islamici, è riconosciuto in tutte le nazioni tranne che in Italia. L’odissea dei coniugi Bianchini, bloccati a Nairobi per un pasticcio istituzionale
Caos affido, così Duniya ha sconfitto la burocrazia
Il visto ottenuto facendo causa alla Farnesina
« Siamo distrutti ma abbiamo finalmente il visto». Sono queste le prime parole della signora Rahma Nur Mohamud, moglie di Paolo Bianchini, entrambi cittadini italiani residenti a Pomezia, vicino a Roma. Finalmente Duniya, la bambina somala di 9 mesi che hanno preso in affido nella martoriata capitale Mogadiscio lo scorso 23 novembre, lunedì arriverà in Italia.
Il 21 luglio il Tar del Lazio ha dato torto alla Farnesina e all’ambasciata d’Italia a Nairobi, in Kenya, che consideravano la richiesta «non conforme ai principi di ordine pubblico italiano sottostanti l’istituto dell’ordinamento familiare ex legge 184 del 4 1983». La piccola è stata infatti affidata secondo il sistema della kafala , il cui obiettivo principale è quello di tutelare i minori in vari Paesi islamici. Ma l’Italia è l’unico Paese europeo a non averla ancora riconosciuta giuridicamente.
La saga burocratica con il consolato inizia a febbraio, quando la coppia si trova bloccata a Nairobi assieme a Duniya. Proprietario di un laboratorio orafo lui, da oltre vent’anni maestra delle elementari lei, i due avevamo fatto più volte presente al consolato e alla Farnesina i termini di una sentenza della Cassazione rispetto ai criteri dell’affidamento di Duniya. Quella sentenza stabilisce che «non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse di minore cittadino extracomunitario affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafala». L’Italia però non ha ancora approvato un disegno di legge di ratifica della Convenzione dell’Aja formulata nel 1996. Il Ddl nr. 1589, presentato in Parlamento lo scorso settembre, è solo recentemente passato in Senato. Inoltre, sebbene la Commissione adozioni internazionali (Cai) e l’Agenzia regionale per le adozioni internazionali (Arai) del Piemonte avessero confermato alla coppia la possibilità di adottare in Somalia, solo dopo la sentenza somala che approvava l’affidamento di Duniya si sono pronunciate riguardo ai possibili ostacoli. Un pasticcio burtocratico che Bianchini ha dovuto risolvere da solo, recandosi in ambasciata e invocando la legge sulla trasparenza 241/90, che gli garantiva il diritto di controllare gli atti riguardanti il suo caso.
Sul certificato firmato il 28 marzo dal vice-ambasciatore, Marco Silvi, oltre al mancato valore giuridico della kafala, è stato aggiunto che non erano menzionati «la prevista durata dell’affidamento e i doveri dell’affidatario nei confronti del minore». Ragioni che, secondo il Tar «non assumono significativa rilevanza». A seguito del diniego del visto, i coniugi hanno così fatto ricorso e sono entrati in causa contro la Farnesina e l’ambasciata. Inoltre, il visto negato era paradossalmente turistico, e non per mancato riconoscimento della kafala: il caso è infatti stato presentato davanti al Tar e non presso il tribunale civile. Per circa un mese i coniugi sono rimasti in attesa di una sentenza positiva, e una volta arrivata, il consolato ancora temporeggiava su altre ragioni burocratiche. Venerdì scorso, ormai prossimi alla disperazione, Bianchini, Mohamud e Duniya hanno deciso di rimanere in ambasciata fino al rilascio del visto che, dopo varie discussioni e persino un intervento al telefono di un ufficiale della Farnesina, è stato approvato. «Sono moltissimi i minori bloccati nel Paese d’origine in attesa di ricongiungersi con chi li può amare e far crescere in Italia », ha spiegato la signora Mohamud con le lacrime agli occhi. «Abbiamo combattuto una durissima battaglia che andava oltre la nostra Duniya. E ora speriamo possa aiutare anche gli altri».
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