Sud Sudan, il crocevia degli scampati al terrore
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per Avvenire
LA GRANDE FUGA DALLA GUERRIGLIA
DA EZO (SUD SUDAN), L o scheletro consumato di una mano mozzata, le cui unghie sono rimaste perfettamente intatte, è inchiodato al tronco di un mango dall’imponente chioma verde. Una mano che non rappresenti più una minaccia, e sono poche le persone che si fermano rallentano il passo per guardarla. Ricordare spesso brucia. La vittima della fredda amputazione era infatti un membro del famigerato Esercito di resistenza del Signore (Lra), un feroce gruppo ribelle ugandese. Da ventiquattro anni il Lra semina terrore ovunque ne venga semplicemente avvertita l’ombra.
Questa volta gli abitanti di Ezo, un villaggio sperduto a ovest del Sud Sudan, non hanno dimostrato alcuna pietà. Non è un caso che le autorità abbiano scelto un luogo pubblico per affiggere quel che ne resta del miliziano, il cui cadavere è stato fatto a pezzi meno di un anno fa per essere poi gettato nella fitta foresta equatoriale. Quest’angolo del Sudan, che bacia entrambi i confini del Centrafrica e della Repubblica democratica del Congo, è uno dei più trafficati territori dell’Africa centrale.
Migliaia di persone intersecano quotidianamente qui i propri percorsi, con la speranza di trovare cibo, acqua e un posto sicuro in cui potersi stabilire con le proprie famiglie. Insieme a Ezo, anche le cittadine di Nagero, Tambura, Nzara, Yambio sono località comprese nella fascia territoriale che ospita una massa sempre più numerosa di rifugiati congolesi e centrafricani e di sfollati sudanesi.
Appena due giorni fa, secondo le autorità in loco, alcuni ribelli hanno attaccato tre cittadine, Augoumar, Zemio e Mboki, situate nell’Est del Centrafrica. Dieci persone sono state massacrate e più di cinquanta rapite. Negli attacchi del Lra, sia i rifugiati sia gli sfollati hanno subito violenze fisiche e psicologiche strazianti da ascoltare: «Sono entrati nel mio villaggio durante la notte – spiega Jean-Pierre, da qualche mese residente nel campo di rifugiati di Napere, vicino a Ezo –. Hanno trucidato molte persone e ci hanno perfino costretto a mangiarne i resti. La maggior parte di noi non smetteva di vomitare per terra». Jean- Pierre è riuscito a scappare da Ndoromo, in Congo, ma non a salvare moglie e figli. Ora vive da solo in una capanna e non crede che riuscirà a rivedere più nessuno della sua famiglia.
Lui, come molti altri, riceve gli aiuti di Intersos, un’organizzazione umanitaria italiana che, oltre ad avere progetti in corso in varie zone del Paese, sta lavorando per aprire una base in territorio congolese, così da monitorare al meglio il flusso degli arrivi. Secondo dati ufficiali, sono più di 10mila i rifugiati che dal 2008 hanno cercato scampo e aiuto in Sud Sudan. Qui sono protetti da un contingente militare formato da soldati dell’Esercito per la liberazione del popolo sud-sudanese (Spla), sostenuto dalle Forze di difesa del popolo ugandese (Updf). Soltanto nelle ultime due settimane vi sono stati vari attacchi e imboscate, tra cui l’uccisione di due militari congolesi che viaggiavano in borghese su una moto. Uno dei gruppi del Lra, spesso formati da non più di sei guerriglieri tra i quindici e i venticinque anni, sono usciti improvvisamente dalla boscaglia e, armati di kalashnikov, non hanno risparmiato nessuno.
«I Tong-Tong (Lra nella lingua locale Zande) stanno seminando il terrore – conferma Nelson, uno degli animatori comunitari di Intersos –. Continuiamo a ricevere nuovi arrivi. Sebbene questo non sia ancora un campo particolarmente affollato, tra breve lo potrebbe diventare». Gli attacchi sono avvenuti anche nello stesso campo di Napere, dove le Updf hanno cominciato a pattugliare l’area durante la notte. Con la sta- gione delle piogge, però, alcune capanne stanno cedendo. «Grazie ai soldati, ora ci sentiamo più al sicuro all’interno del campo – spiega Andrew, leader dell’intera comunità di rifugiati –. Ma abbiamo troppa paura per uscire e andare nella boscaglia a raccogliere il materiale necessario per costruire le nostre abitazioni. Alcuni di noi sono partiti e non sono più tornati».
Mary, fuggita con la famiglia dal villaggio congolese di Kpanangbara, ha un bimbo di due anni in braccio e un’espressione quasi rassegnata. Suo marito è andato in cerca di cibo e il suo cadavere è stato trovato settimana scorsa a qualche chilometro dal campo: «Sono sicura che sono stati i ribelli del Lra – racconta battendo il pugno sulla coscia –. Insieme a lui c’era anche un ragazzo sudanese di vent’anni che non è stato più trovato». Ludovico Gammarelli, coordinatore per i progetti di Intersos in Sud Sudan, assicura che Intersos, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu e il governo sud-su- danese ( Goss) stanno lavorando per garantire migliori condizioni di sicurezza. «Le capanne sono ancora troppo fragili per affrontare la stagione delle piogge – osserva con amarezza Ludovico –. Con l’aiuto del Goss e la benevolenza della popolazione locale che finora si è dimostrata molto collaborativa, riusciremo a risolvere il problema ». Anche molti cittadini sud-sudanesi hanno dovuto spesso spostarsi a causa degli attacchi del Lra. In tanti sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni, situate solamente a qualche chilometro dal nuovo insediamento, dove la presenza di militari fornisce una maggiore sicurezza. Benché a volte nascano incomprensioni relative al territorio, i sud-sudanesi riconoscono l’importanza di rispettare le esigenze dei nuovi arrivati: «Ci rispecchiamo nei loro volti stanchi e spaventati», commenta un leader tradizionale della zona: «Anche noi, tempo fa, eravamo rifugiati nel loro Paese».
Padre Mario: parrocchia spostata oltreconfine
Q uando un conflitto stravolge la realtà di un villaggio, e la comunità che lo popolava è costretta a partire senza sapere se mai riuscirà a tornare indietro, sono poche le persone che, grazie alla spinta dalla fede e dall’amore per la propria missione, compirebbero la stessa scelta. Una di queste è padre Mario Benedetti, un comboniano settantenne che, dopo 38 anni passati nella Repubblica democratica del Congo, ha voluto spostarsi con i suoi parrocchiani dall’altra parte del confine, in Sud Sudan. Nel campo di Makpandu, a 45 chilometri da Yambio, capitale dello Stato sudanese dell’Equatoria occidentale, il religioso vive da qualche mese come rifugiato tra i rifugiati: «I miei parrocchiani hanno lasciato il villaggio di Duru circa un anno fa a causa del Lra», spiega. È riuscito a sopravvivere a ben due attacchi da parte dei ribelli: «La gente non si sentiva più sicura. Allora, durante le mie ultime vacanze in Italia, ho chiesto al vescovo se sarebbe stato possibile seguirli e cominciare una nuova vita in Sud Sudan. Lui mi ha concesso di spostarmi».
La missione di Duru è stata presa d’assalto da sei guerriglieri del Lra per la prima volta nel dicembre del 2007. Dopo aver massacrato alcuni civili e aver rubato cibo e medicine, i ribelli sono scomparsi nella boscaglia. L’anno dopo, invece, i miliziani sono arrivati in più di sessanta. Il missionario si è nascosto insieme a molti dei suoi parrocchiani nella foresta ed è riuscito a sopravvivere. «Visti i rischi tra cui vivevamo, tanti abitanti di Duru hanno deciso di non rischiare e fuggire». Ora padre Mario vive in una piccola capanna costruita con legna e paglia, pulita e dignitosa. Sulla mensola della sua scrivania sono appoggiati la Bibbia e altre opere religiose.
Un generatore serve a dare elettricità al suo computer portatile e al proiettore con cui riesce a mostrare alcuni video su Mosè ai più giovani della comunità.
«Qui nel campo a volte sentiamo la frustrazione di non poter ritornare a Duru, così grazie al prezioso aiuto di qualche organizzazione umanitaria, come Intersos, World Vision e Medici senza frontiere, sto cercando di portare avanti alcune attività. Purtroppo, sebbene ci si aiuti molto a vicenda, i problemi non mancano». Il comboniano considera la diffusione dell’alcol una delle maggiori sfide all’interno dei campo dei rifugiati: «Tanti uomini, e anche diverse donne, hanno preso l’abitudine di bere. Chi non coltiva o non ha trovato un lavoro nelle cittadine vicine rimane tutto il giorno senza fare niente. Si comprano piccoli sacchetti di plastica riempiti di un liquido altamente alcolico che viene dall’Uganda e che spesso causa profonde crisi familiari. Le donne invece riescono a vendere una sostanza alcolica prodotta dalla distillazione di prodotti alimentari e la vendono per pochi soldi. Bere non ti fa sentire la fame».
Il campo si sta lentamente ingrandendo e padre Mario è convinto che i rifugiati con cui vive non ritorneranno presto nei loro villaggi: «Gli attacchi del Lra continuano. Proprio qualche giorno fa in Congo sono state uccise almeno sei persone nei pressi della zone in cui vivevamo. Queste sono le informazioni che portano con sé i rifugiati che scappano in cerca della salvezza».
LA SITUAZIONE
MIGLIAIA DI RIFUGIATI E ATTACCHI A COLPI DI MACHETE
Secondo stime ufficiali, sono più di 10.500 i rifugiati giunti in Sud Sudan dalla Repubblica democratica del Congo e dal Centrafrica. Sono invece almeno 81.300 gli sfollati che si spostano internamente nello Stato dell’Equatoria occidentale, confinante con questi Paesi. Sebbene gli spostamenti siano continui, i sudanesi che dal Congo e dalla Repubblica centrafricana sono ritornati nei loro villaggi d’origine in Sudan sono quasi 16mila. Intersos segue i campi di Makpandu (nell’area di Yambio) e Napere (Ezo) con circa tremila rifugiati ciascuno. Non si sa con certezza quanti siano i ribelli del Lra, ma si pensa che oggi non superino qualche centinaio, divisi in gruppi più piccoli sparsi in tutti tre gli Stati. Agli inizi del 2000, il Lra ha provocato in Uganda due milioni di sfollati che ora sono tornati nei propri villaggi d’origine o hanno comunque lasciato i campi occupati dalla metà degli anni Novanta.
Ma i ribelli sono ancora attivi. Dal settembre 2008 sono almeno 2.200 le vittime del Lra nella regione. Testimonianze agghiaccianti arrivano dopo il loro ultimo attacco in Centrafrica. «I ribelli hanno dato prova di una violenza inaudita contro poveri civili inermi. Hanno prima ferito le persone e poi le hanno finite a colpi di machete», ha detto all’Agenzia Fides monsignor Juan José Aguirre Muños, vescovo di Bangassou. «I ribelli del Lra sono giunti ad Agoumar domenica – ha raccontato il presule –. Erano una trentina, tra cui 56 donne. Diversi avranno avuto al massimo 17 anni. E sono fuggiti costringendo 20-25 ragazzi a seguirli come portantini. La popolazione è terrorizzata. Sono stato costretto a inviare un’auto per portate a Bangassou cinque suore congolesi che gestivano una scuola nella zona, mentre si deve al coraggio di padre Kodian, un francescano polacco, se le povere vittime hanno avuto una degna sepoltura>>.
I RIBELLI
IL FANATICO KONY E I BABY-SOLDATI
Il Lord’s Resistance Army (Esercito di resistenza del Signore) è nato in Nord Uganda nel 1986 per iniziativa di Joseph Kony, un guerrigliero ugandese la cui instabilità mentale è stata accertata. Il gruppo è tristemente noto per i rapimenti di minori che vengono trasformati in bambini soldato, e per le sue cruenti punizioni: a chiunque disobbedisce vengono amputate parti del corpo, comprese labbra e orecchie.
Sebbene il governo ugandese, di concerto con la comunità internazionale, lo abbia contrastato per anni, il gruppo ribelle è riuscito a sopravvivere. Gli analisti e le popolazioni colpite accusano il presidente sudanese el-Bashir di sostenere i guerriglieri allo scopo di destabilizzare la regione.
Sia per Kony sia per Bashir è stato emesso un mandato d’arresto dalla Corte penale internazionale. Con la fine dei negoziati con l’Uganda, il gruppo ribelle ha posto basi in Congo, Sudan e Centrafrica.
Matteo Fraschini Koffi
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