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Sud Sudan, il crocevia degli scampati al terrore

25 Marzo 2010

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per Avvenire

LA GRANDE FUGA DALLA GUERRIGLIA

DA EZO (SUD SUDAN), L o scheletro consumato di una mano mozzata, le cui unghie sono rimaste perfettamente intatte, è inchiodato al tronco di un mango dall’imponente chio­ma verde. Una mano che non rappresenti più una minaccia, e sono poche le persone che si fermano rallentano il passo per guar­darla. Ricordare spesso brucia. La vittima della fredda amputazione era infatti un membro del famigerato Esercito di resi­stenza del Signore (Lra), un feroce gruppo ribelle ugandese. Da ventiquattro anni il L­ra semina terrore ovunque ne venga sem­plicemente avvertita l’ombra.

Questa volta gli abitanti di Ezo, un villaggio sperduto a ovest del Sud Sudan, non han­no dimostrato alcuna pietà. Non è un caso che le autorità abbiano scelto un luogo pub­blico per affiggere quel che ne resta del mi­liziano, il cui cadavere è stato fatto a pezzi meno di un anno fa per essere poi gettato nella fitta foresta equatoriale. Quest’ango­lo del Sudan, che bacia entrambi i confini del Centrafrica e della Repubblica demo­cratica del Congo, è uno dei più trafficati territori dell’Africa centrale.

Migliaia di persone intersecano quotidia­namente qui i propri percorsi, con la spe­ranza di trovare cibo, acqua e un posto si­curo in cui potersi stabilire con le proprie famiglie. Insieme a Ezo, anche le cittadine di Nagero, Tambura, Nzara, Yambio sono località comprese nella fascia territoriale che ospita una massa sempre più numero­sa di rifugiati congolesi e centrafricani e di sfollati sudanesi.

Appena due giorni fa, secondo le autorità in loco, alcuni ribelli hanno attaccato tre cittadine, Augoumar, Zemio e Mboki, si­tuate nell’Est del Centrafrica. Dieci perso­ne sono state massacrate e più di cinquan­ta rapite. Negli attacchi del Lra, sia i rifu­giati sia gli sfollati hanno subito violenze fi­siche e psicologiche strazianti da ascoltare: «Sono entrati nel mio villaggio durante la notte – spiega Jean-Pierre, da qualche me­se residente nel campo di rifugiati di Na­pere, vicino a Ezo –. Hanno trucidato mol­te persone e ci hanno perfino costretto a mangiarne i resti. La maggior parte di noi non smetteva di vomitare per terra». Jean- Pierre è riuscito a scappare da Ndoromo, in Congo, ma non a salvare moglie e figli. Ora vive da solo in una capanna e non crede che riuscirà a rivedere più nessuno della sua famiglia.

Lui, come molti altri, riceve gli aiuti di In­tersos, un’organizzazione umanitaria ita­liana che, oltre ad avere progetti in corso in varie zone del Paese, sta lavorando per a­prire una base in territorio congolese, così da monitorare al meglio il flusso degli arri­vi. Secondo dati ufficiali, sono più di 10mi­la i rifugiati che dal 2008 hanno cercato scampo e aiuto in Sud Sudan. Qui sono pro­tetti da un contingente militare formato da soldati dell’Esercito per la liberazione del popolo sud-sudanese (Spla), sostenuto dal­le Forze di difesa del popolo ugandese (Updf). Soltanto nelle ultime due settima­ne vi sono stati vari attacchi e imboscate, tra cui l’uccisione di due militari congolesi che viaggiavano in borghese su una moto. Uno dei gruppi del Lra, spesso formati da non più di sei guerriglieri tra i quindici e i ven­ticinque anni, sono usciti improvvisamen­te dalla boscaglia e, armati di kalashnikov, non hanno risparmiato nessuno.

«I Tong-Tong (Lra nella lingua locale Zan­de) stanno seminando il terrore – conferma Nelson, uno degli animatori comunitari di Intersos –. Continuiamo a ricevere nuovi arrivi. Sebbene questo non sia ancora un campo particolarmente affollato, tra breve lo potrebbe diventare». Gli attacchi sono avvenuti anche nello stesso campo di Na­pere, dove le Updf hanno cominciato a pat­tugliare l’area durante la notte. Con la sta- gione delle piogge, però, alcune capanne stanno cedendo. «Grazie ai soldati, ora ci sentiamo più al sicuro all’interno del cam­po – spiega Andrew, leader dell’intera co­munità di rifugiati –. Ma abbiamo troppa paura per uscire e andare nella boscaglia a raccogliere il materiale necessario per co­struire le nostre abitazioni. Alcuni di noi so­no partiti e non sono più tornati».

Mary, fuggita con la famiglia dal villaggio congolese di Kpanangbara, ha un bimbo di due anni in braccio e un’espressione quasi rassegnata. Suo marito è andato in cerca di cibo e il suo cadavere è stato trovato setti­mana scorsa a qualche chilometro dal cam­po: «Sono sicura che sono stati i ribelli del Lra – racconta battendo il pugno sulla co­scia –. Insieme a lui c’era anche un ragazzo sudanese di vent’anni che non è stato più trovato». Ludovico Gammarelli, coordina­tore per i progetti di Intersos in Sud Sudan, assicura che Intersos, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu e il governo sud-su- danese ( Goss) stanno lavorando per ga­rantire migliori condizioni di sicurezza. «Le capanne sono ancora troppo fragili per af­frontare la stagione delle piogge – osserva con amarezza Ludovico –. Con l’aiuto del Goss e la benevolenza della popolazione locale che finora si è dimostrata molto col­laborativa, riusciremo a risolvere il proble­ma ». Anche molti cittadini sud-sudanesi hanno dovuto spesso spostarsi a causa degli at­tacchi del Lra. In tanti sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni, situate sola­mente a qualche chilometro dal nuovo in­sediamento, dove la presenza di militari for­nisce una maggiore sicurezza. Benché a vol­te nascano incomprensioni relative al ter­ritorio, i sud-sudanesi riconoscono l’im­portanza di rispettare le esigenze dei nuo­vi arrivati: «Ci rispecchiamo nei loro volti stanchi e spaventati», commenta un leader tradizionale della zona: «Anche noi, tempo fa, eravamo rifugiati nel loro Paese».

Padre Mario: parrocchia spostata oltreconfine

Q uando un conflitto stravolge la realtà di un villaggio, e la co­munità che lo popo­lava è costretta a partire sen­za sapere se mai riuscirà a tornare indietro, sono poche le persone che, grazie alla spinta dalla fede e dall’amore per la pro­pria missione, compirebbero la stessa scelta. Una di queste è padre Mario Be­nedetti, un comboniano settantenne che, dopo 38 anni passati nella Repub­blica democratica del Congo, ha voluto spostarsi con i suoi parrocchiani dall’al­tra parte del confine, in Sud Sudan. Nel campo di Makpandu, a 45 chilome­tri da Yambio, capitale dello Stato suda­nese dell’Equatoria occidentale, il reli­gioso vive da qualche mese come rifu­giato tra i rifugiati: «I miei parrocchiani hanno lasciato il villaggio di Duru circa un anno fa a causa del Lra», spiega. È riuscito a sopravvivere a ben due attac­chi da parte dei ribelli: «La gente non si sentiva più sicura. Allora, durante le mie ultime vacanze in Italia, ho chiesto al ve­scovo se sarebbe stato possibile seguir­li e cominciare una nuova vita in Sud Su­dan. Lui mi ha concesso di spostarmi».

La missione di Duru è stata presa d’as­salto da sei guerriglieri del Lra per la pri­ma volta nel dicembre del 2007. Dopo a­ver massacrato alcuni civili e aver ruba­to cibo e medicine, i ribelli sono scom­parsi nella boscaglia. L’anno dopo, in­vece, i miliziani sono arrivati in più di sessanta. Il missionario si è nascosto in­sieme a molti dei suoi parrocchiani nel­la foresta ed è riuscito a sopravvivere. «Visti i rischi tra cui vivevamo, tanti abi­tanti di Duru hanno deciso di non ri­schiare e fuggire». Ora padre Mario vive in una piccola capanna costruita con le­gna e paglia, pulita e dignitosa. Sulla mensola della sua scrivania sono ap­poggiati la Bibbia e altre opere religiose.

Un generatore serve a dare elettricità al suo computer portatile e al proiettore con cui riesce a mostrare alcuni video su Mosè ai più giovani della comunità.

«Qui nel campo a volte sentiamo la fru­strazione di non poter ritornare a Duru, così grazie al prezioso aiuto di qualche organizzazione umanitaria, come Inter­sos, World Vision e Medici senza fron­tiere, sto cercando di portare avanti al­cune attività. Purtroppo, sebbene ci si aiuti molto a vicenda, i problemi non mancano». Il comboniano considera la diffusione dell’alcol una delle maggiori sfide all’interno dei campo dei rifugiati: «Tanti uomini, e anche diverse donne, hanno preso l’abitudine di bere. Chi non coltiva o non ha trovato un lavoro nelle cittadine vicine rimane tutto il giorno senza fare niente. Si comprano piccoli sacchetti di plastica riempiti di un liqui­do altamente alcolico che viene dall’U­ganda e che spesso causa profonde cri­si familiari. Le donne invece riescono a vendere una sostanza alcolica prodotta dalla distillazione di prodotti alimenta­ri e la vendono per pochi soldi. Bere non ti fa sentire la fame».

Il campo si sta lentamente ingrandendo e padre Mario è convinto che i rifugiati con cui vive non ritorneranno presto nei loro villaggi: «Gli attacchi del Lra conti­nuano. Proprio qualche giorno fa in Congo sono state uccise almeno sei per­sone nei pressi della zone in cui viveva­mo. Queste sono le informazioni che portano con sé i rifugiati che scappano in cerca della salvezza».

LA SITUAZIONE

MIGLIAIA DI RIFUGIATI E ATTACCHI A COLPI DI MACHETE

Secondo stime ufficiali, sono più di 10.500 i rifugiati giunti in Sud Sudan dalla Repubblica democratica del Congo e dal Centrafrica. Sono invece almeno 81.300 gli sfollati che si spostano internamente nello Stato dell’Equatoria occidentale, confinante con questi Paesi. Sebbene gli spostamenti siano continui, i sudanesi che dal Congo e dalla Repubblica centrafricana sono ritornati nei loro villaggi d’origine in Sudan sono quasi 16mila. Intersos segue i campi di Makpandu (nell’area di Yambio) e Napere (Ezo) con circa tremila rifugiati ciascuno. Non si sa con certezza quanti siano i ribelli del Lra, ma si pensa che oggi non superino qualche centinaio, divisi in gruppi più piccoli sparsi in tutti tre gli Stati. Agli inizi del 2000, il Lra ha provocato in Uganda due milioni di sfollati che ora sono tornati nei propri villaggi d’origine o hanno comunque lasciato i campi occupati dalla metà degli anni Novanta.

Ma i ribelli sono ancora attivi. Dal settembre 2008 sono almeno 2.200 le vittime del Lra nella regione. Testimonianze agghiaccianti arrivano dopo il loro ultimo attacco in Centrafrica. «I ribelli hanno dato prova di una violenza inaudita contro poveri civili inermi. Hanno prima ferito le persone e poi le hanno finite a colpi di machete», ha detto all’Agenzia Fides monsignor Juan José Aguirre Muños, vescovo di Bangassou. «I ribelli del Lra sono giunti ad Agoumar domenica – ha raccontato il presule –. Erano una trentina, tra cui 5­6 donne. Diversi avranno avuto al massimo 17 anni. E sono fuggiti costringendo 20-25 ragazzi a seguirli come portantini. La popolazione è terrorizzata. Sono stato costretto a inviare un’auto per portate a Bangassou cinque suore congolesi che gestivano una scuola nella zona, mentre si deve al coraggio di padre Kodian, un francescano polacco, se le povere vittime hanno avuto una degna sepoltura>>.

I RIBELLI

IL FANATICO KONY E I BABY-SOLDATI

Il Lord’s Resistance Army (Esercito di resistenza del Signore) è nato in Nord Uganda nel 1986 per iniziativa di Joseph Kony, un guerrigliero ugandese la cui instabilità mentale è stata accertata. Il gruppo è tristemente noto per i rapimenti di minori che vengono trasformati in bambini soldato, e per le sue cruenti punizioni: a chiunque disobbedisce vengono amputate parti del corpo, comprese labbra e orecchie.

Sebbene il governo ugandese, di concerto con la comunità internazionale, lo abbia contrastato per anni, il gruppo ribelle è riuscito a sopravvivere. Gli analisti e le popolazioni colpite accusano il presidente sudanese el-Bashir di sostenere i guerriglieri allo scopo di destabilizzare la regione.

Sia per Kony sia per Bashir è stato emesso un mandato d’arresto dalla Corte penale internazionale. Con la fine dei negoziati con l’Uganda, il gruppo ribelle ha posto basi in Congo, Sudan e Centrafrica.

 

Matteo Fraschini Koffi

 

 

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