Inferno Yemen: tra i disperati in fuga dall'orrore somalo
tags:
per Avvenire
Al centro di Mayfa ogni settimana centinaia di immigrati si ritrovano dopo aver affrontato il Golfo di Aden «Ho visto mia sorella morire tra le onde»
DA MAYFA (YEMEN) - «Non sono riuscita a salvarla », ripete Asha, somala sui trent’anni, pensando alla sorella e portando le mani al viso per trattenere le lacrime: «Ho cercato di afferrarle la mano, ma le onde erano troppo forti e nella barca nessuno mi ha aiutato. L’ho vista mentre veniva portata via dalla corrente».
Al centro d’accoglienza di Mayfa, un villaggio a qualche chilometro dalla costa yemenita, ogni settimana centinaia di immigrati del Corno d’Africa si ritrovano dopo aver attraversato il Golfo di Aden rischiando la loro vita. Fuggono da Paesi in guerra come la Somalia, dalla siccità che ogni anno miete migliaia di vittime in Etiopia, o dal regime di Asmara, in Eritrea. Hanno speso centinaia di dollari speditigli dai propri parenti all’estero o recuperati vendendo quel poco di prezioso che possedevano. Tutto pur di raggiungere l’Arabia Saudita dove solitamente hanno dei familiari o degli amici, o dove hanno semplicemente intenzione di iniziare una nuova vita. Dall’inizio dell’anno, secondo i rapporti dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni (Acnur), sono almeno 50mila le persone e quasi mille le imbarcazioni che hanno raggiunto lo Yemen, e le cifre sono maggiori di quelle di tutto l’anno precedente. «Questa sera non finiremo presto – afferma Marco Procaccini, profiling officer per Intersos, un’organizzazione non governativa italiana che da anni assiste centinaia di migliaia di sfollati a Jowhar, in Somalia –. Sono venuti in tanti e senza dubbio dovremo lavorare fino a notte inoltrata».
Oggi la maggior parte dei rifugiati – mentre ieri si è aperto a Kampala il vertice straordinario dell’Unione africana (Ua) dedicato al problema dei profughi – è arrivata verso il primo pomeriggio, sono più di duecento, e hanno dovuto sopportare tre giorni di paura su una barca strapiena, stipati persino nelle stive con la possibilità di rimanere soffocati per la mancanza di ossigeno. Alcuni di loro non riescono a camminare poiché gli scafisti li hanno costretti a stringere le ginocchia al petto durante tutto il viaggio, così da occupare il minore spazio possibile e guadagnare più soldi. Solitamente 150 dollari americani a testa per la traversata, e se non si ha il denaro, si aspetta fino a quando lo si ottiene. Niente cibo o acqua a bordo poiché non c’è bagno, e se proprio non ci si trattiene, si fa il tutto senza muoversi dalla propria postazione, in mezzo agli altri.
«Quando arrivano sulla costa yemenita – continua Marco Procaccini – un’agenzia umanitaria locale li va a prendere con i loro camion, gli procura da mangiare e da bere, e dopo circa un paio d’ore li trasporta qui a Mayfa. In questo centro vengono registrati dall’Acnur e gli viene consigliato di sfruttare il trasporto fino Kharaz, un campo per rifugiati vicino ad Aden. Purtroppo, secondo le nostre stime, solo l’8% sceglie questa opzione, il resto riprende il viaggio verso l’Arabia Saudita o rimane in Yemen senza documenti validi che attestino il loro status. Noi delle agenzie umanitarie non possiamo certo forzarli a raggiungere il campo».
Il traffico degli immigrati del Corno d’Africa è disorganizzato, ma frutta parecchio denaro: «Partono magari da Mogadiscio per arrivare a Bosaso, nel Puntland, a nord della Somalia. Da lì altri trafficanti li raggruppano e ogni giorno, specialmente in questa stagione, li imbarcano prendendo soldi o documenti.
Una volta raggiunto lo Yemen, un terzo gruppo di trafficanti li porta al confine con l’Arabia Saudita in auto, e un ultimo gruppo gli fa passare la frontiera. Le stime non sono precise, ma si parla probabilmente di milioni di dollari l’anno». Tra le varie missioni, Intersos si occupa di documentare i casi più gravi: immigrati che hanno perso i loro cari, che sono disabili, donne sole e incinta, e minorenni non accompagnati. Dopo le sessioni di “counseling” in cui si cerca di ascoltare e calmare la persona visitata, i dati di Intersos vengono condivisi con l’Acnur e il governo yemenita. Il lavoro è tanto intenso quanto imprevedibile, poiché nessuno sa quando il prossimo carico di nuovi arrivati si presenterà al cancello del centro. È mezzanotte, infatti, e Marco esce dall’ufficio per andare a ricevere un altro gruppo di disperati composto da quaranta persone appena sbarcate e in cerca di una vita migliore.
Il viaggio dura tre giorni su una barca strapiena: uomini e donne sono stipati persino nelle stive, costretti a stringere le ginocchia al petto per occupare meno spazio «Il mio sogno? Si chiama Arabia Saudita» la storia
Sahra, 16 anni: «L’ho promesso alla mia famiglia» Halima invece vuole restare: «Mi hanno già rispedita indietro»
DA MAYFA (YEMEN)
S ahra e Halima, entrambe sedicenni, si sono conosciute sulla barca sostenendosi a vicenda durante il viaggio.
Rispecchiano due delle principali tipologie di rifugiati che attraversano il Golfo di Aden. Per Sahra è la prima volta: ha lasciato Jowhar, nella Somalia centromeridionale, dopo che la sua famiglia l’aveva convinta a raggiungere uno zio in Arabia Saudita. « I miei genitori mi avevano detto che sarebbe stato meglio per tutti se fossi partita in cerca di un lavoro – spiega Sahra –. Mio zio continuava a telefonare dicendo che lui avrebbe organizzato il viaggio e spedito i soldi per i trafficanti. Ma il denaro non bastava, così mia mamma ha cercato di vendere alcuni braccialetti e collanine d’oro che possedevamo.
Sono partita circa venti giorni fa, e una volta raggiunta Bosaso, ho aspettato tre giorni prima di essere imbarcata » . Sahra è timida e spaventata, completamente all’oscuro di quello che sarà il suo destino, ma ha comunque deciso di seguire un cugino che la porterà fino al confine tra i due Paesi. « Mi fido di lui e spero che manterrà la sua promessa » , dice mentre mi mostra delle banconote e un documento d’identità arrotolati in un sacchetto di plastica per evitare che si bagnino nell’acqua. Halima, invece, viene da Mogadiscio ed è già al suo secondo viaggio. Ha attraversato il Golfo qualche anno prima riuscendo ad arrivare in Arabia Saudita. Ma nel giro di qualche ora è stata intercettata dalle autorità locali che l’hanno messa in prigione per più di un mese. « Durante il tempo che ho trascorso in cella ho conosciuto molte altre donne somale nella mia stessa situazione, aspettavamo tutte di essere deportate in Somalia. Alcune erano riuscite a trascorrere qualche mese in Arabia Saudita, lavorando come donne delle pulizie o entrando nel giro della prostituzione. La maggior parte di loro era stata costretta a dare il proprio documento d’identità ai trafficanti poiché erano rimaste senza soldi per pagare il resto del viaggio » . I voli aerei che trasportano immigrati del Corno d’Africa dall’Arabia Saudita in Somalia sono abbastanza frequenti, ma in quel periodo, verso l’inizio del 2007, il gruppo di matrice islamico- estremista alShabaab controllava la maggior parte degli aeroporti. « Un giorno, l’ambasciatore somalo a Riad è venuto in prigione per comunicarci che c’erano dei problemi con la deportazione poiché le autorità non avevano ancora il permesso dagli shabaab di far atterrare l’aereo. Dopo un paio di settimane ci sono riusciti e ci hanno lasciato in Somalia, riprendendo il volo il più in fretta possibile » . Halima, il cui padre è stato ucciso due anni fa in uno degli scontri di Mogadiscio, ha deciso quindi di riprovarci ed è per questo che si trova in Yemen: « Ho deciso di non andare più in Arabia Saudita, ma di fermarmi qui e trovare un lavoro.
Non importa se dovrò soffrire, in Somalia soffrivo molto di più » .
Sahra guarda Halima mentre racconta la sua storia, e sebbene sia spaventata, dice che proverà comunque a passare il confine: « L’ho promesso alla mia famiglia, hanno bisogno di me in questo momento, non ho altra scelta » . All’arrivo la registrazione come «provvisori» Ma se puntano su Riad vengono rimandati a casa
Gli immigrati che, dopo un viaggio che dura in media tra le 36 e le 72 ore, dal Corno d’Africa raggiungono la costa dello Yemen, sono soprattutto somali in fuga dalla guerra civile e ai quali viene subito riconosciuto lo status di rifugiati «prima facie» (a “prima vista”). Insieme a loro partono gli etiopi, soprattutto quelli Oromo, una popolazione che vive in una regione al confine con la Somalia meridionale. Anche alcuni eritrei hanno attraversato il Golfo di Aden, e per questi ultimi due gruppi c’è bisogno di un processo di registrazione differente per ottenere lo status di rifugiati. La maggior parte degli immigrati vuole raggiungere l’Arabia Saudita, sebbene da anni le autorità saudite deportino al Paese d’origine migliaia di immigrati: una pratica messa in atto con pochi scrupoli e che ha ha attirato le critiche di alcune organizzazioni per i diritti umani.
Matteo Fraschini Koffi
© riproduzione riservata