Le ciliegie dello Skinhead
LOME' (TOGO) -- Oltre vent’anni fa mi hanno proposto di incontrare uno Skinhead. Ero tornato da un anno di studi in Ohio, negli Stati Uniti, e avevo perso l’energia per continuare oltre il secondo anno di università.
Frequentavo però numerosi locali della “Milano da bere”. Facevo amicizia con tutti i tipi di persone che avevano una sola cosa in comune: non erano degli skinhead. Non ufficialmente, almeno. Fin da piccolo quella particolare comunità di persone non mi attirava per niente. I “neonazi” mi innervosivano ogni volta che li vedevo in TV, al cinema, o quando avevo la sfortuna di incrociarli per strada mentre andavo a scuola o a fare sport con gli amici. Elementari, medie, liceo, durante gli anni novanta vedevo skinhead quasi ovunque. Per i parchi e nei campi da calcio, nei bar e in discoteca. Difficile evitarli o evitarne gli aneddoti durante le conversazioni.
Ogni volta che uscivo di casa mi preparavo psicologicamente a quella giornata in cui avrei potuto incontrare un simpatizzante del defunto Führer. Prima o poi sarebbe comunque successo, lo sentivo. Dovevo solo farmi trovare preparato. Ma come avrei potuto spiegargli che non era stata mia la scelta di vivere a Milano da quando avevo nove mesi? Non sarei riuscito a fargli un riassunto della mia adozione dall’Africa occidentale fissando lo sguardo minaccioso della sua “lama”. Trafficanti e drogati, punkabbestia e paninari, sancarlini e alternativi, scout e chierichetti, oltre a un ventaglio di gente tanto per bene quanto poco di buono: ai tempi frequentavo proprio tutti. Tutti tranne gli skinhead. Il mio destino, però, era segnato.
PROPOSTA INDECENTE
Seduto su uno sgabello del Saloon, un locale di zona Paolo Sarpi, stringevo il calice di una birra doppio-malto. Come quasi ogni sera parlavo animatamente con Luca, al tempo uno dei miei migliori amici. Statura bassa, testa rasata, occhi azzurri. Aveva l’aspetto di uno skinhead ma non lo era. Non completamente. Viveva a Mantegazza, piccola frazione di circa mille abitanti in un comune della Brianza. Quella sera mi ha chiesto guardandomi dritto negli occhi: “Ci staresti se ti facessi incontrare il fratello di Maria?” La sua ragazza (e futura moglie) era una splendida persona. Sempre entusiasta e sorridente. Il fratello, almeno in parte, non poteva che assomigliarle.
“Ecco l’ultimo sparo!”, ci ha interrotto lei con fragore appena tornata dal bancone con tre bicchierini colmi di non so quale miscuglio alcolico. “Pronti?? Tre, due, uno, SPARO!!” L’abbiamo trangugiato tutto d’un colpo. Appoggiato il bicchierino ho esclamato: “Sì, certo, nessun problema!” Luca ha cominciato a sorridere. Maria, arrivata troppo tardi, non capiva a cosa mi riferissi. “...Nessun problema cosa?” Ci guardava con gli occhi ancora lucidi per il livello alcolico appena inghiottito. Occhi azzurri e frustrati che erano diventati fari glaciali sotto una folta chioma bionda su un volto color panna. “Si, ci sto!”, ho ripetuto. Maria mi fissava preoccupata. Si girava verso il suo futuro marito per chiedere aiuto. Luca ormai non ce la faceva più. Va bene, ho capito, dovevo spiegarlo io: “Niente di che, Luca ha detto che voleva farmi incontrare tuo fratello, tutto q- - ”.
Non sono riuscito a terminare che Maria ha cominciato a tossire pesantemente. Forse aveva ancora un piccolo sorso dello sparino in fondo alla gola. Appena ho menzionato il fratello le è andato tutto di traverso. “..qua.”, ho finito con un sopracciglio alzato. Maria sfoggiava ora un viso color fragola. Era molto protettiva nei confronti del fratello in qualunque conversazione ma non avevo anticipato una reazione di questo genere. “Ehm.... – ha cominciato dopo essersi ricomposta – ...dunque...”. Luca ormai era scoppiato a ridere. “Dunque cosa? Se non vuoi che lo incontri lasciamo st...”, mi stavo innervosendo. “No-no-no-no, è che...non vorrei che...” Niente, non ci riusciva proprio a dirmelo. Toccò quindi a Luca svelare l’arcano: “...Il fratello di Maria è uno Skinhead”. Ho deglutito.
IL VIAGGIO
Il volante dell’auto non mi era mai sembrato così pesante. Sulla superstrada dei Laghi, dove ero abituato a scorrazzare come un missile, non riuscivo a superare i 90 chilometri orari. Erano passati tre giorni di riflessione ma mi stavo dirigendo volontariamente verso la tana di uno Skinhead. Un incontro ravvicinato dell’ultimo tipo. Pensavo alla mia gioventù e non riuscivo a credere che sarebbe potuta finire nelle prossime ore. Ho sempre goduto nel bullizzare i bulli, ma non gli skinhead. Quel tipo d’ignoranza non la concepivo. Per quanto possibile la tenevo a grande distanza. I dubbi sulle idee razziali dei miei amati Metallica, l’incredibile performance di Edward Norton nel film “American History X”, la festa americana a cui io e quel parigino di Benjamin (unici neri della classe) non eravamo stati invitati, pure l’amico Paolo che aveva recuperato la palla di un gruppo di skinhead mentre giocava a calcio in Piazzale Lotto. Tutto mi stava ritornando in mente come un boomerang dritto al volto.
Luca era venuto a prendermi all’uscita della superstrada: “Teo ciao, come va, ascolta, non ti preoccupare, gli abbiamo detto che con te deve fare il buono”, sghignazzava ancora mentre mi faceva cenno di seguirlo. Dopo alcuni chilometri durante i quali stavo rivalutando il valore di questo incontro, abbiamo parcheggiato davanti a un bar. “Vieni che ti presento ad alcuni amici, poi andiamo da Maria”. Caspita, non gli bastava introdurmi a uno Skinhead, voleva pavoneggiarmi davanti all’intera comunità neonazi di Mantegazza? Sorseggiavamo un caffè seduti ai tavolini fuori. L’interno del bar era cosparso di bandiere rossonere e stemmi della fossa dei Leoni. Gli sguardi dei clienti variavano da minacciosi a spaesati. Sembrava fosse la prima volta che vedessero un nero parlare italiano con l’accento milanese (...in effetti per alcuni forse lo era).
Come previsto ci ha raggiunto un amico. Conosceva Luca da quando erano piccoli. Rasato, sovrappeso, e noto per essere il principale spacciatore della frazione. È rimasto qualche minuto a parlare del tempo fingendo di non essere interessato alla persona che aveva di fianco. Non poteva andarsene senza però lasciarmi una delle più interessanti perle di saggezza: “Si dice negro, non nero”. Quasi mi commuoveva il livello della sua intellettualità semantica. Non posso dire con certezza se fosse uno Skinhead sebbene Luca continuasse a ridere. Stavamo per lasciare il bar quando mi sono sentito afferrare l’avambraccio.
“Davvero, non ti preoccupare Teo, ho detto al fratello di Maria di fare il bravo. Non sono d’accordo con tutte le sue idee...ma...capisco che ogni tanto lui giri per la Brianza con la lama insieme ai suoi amici. In Italia abbiamo comunque un grosso problema di....” Ero abituato ad ascoltare discorsi del genere, ognuno ha la sua prospettiva, quindi ho spento i sensori per un attimo e mi sono rifocalizzato sul merito di questa impresa, assurda per diversi aspetti. Non dovevo dimostrare nulla a nessuno, tanto meno a uno Skinhead. E poi mi sembrava di avere appena incontrato un mezzo Skinhead, quello poteva bastare, perché insistere nell’incontrarne uno completo?
“Dai – ha concluso Luca –, andiamo che Maria ci aspetta!”
LA DESTINAZIONE
“Ciao Matteo, come va, spero tutto bene il viaggio!”
Era sempre più sorridente e imbarazzata. Mi conosceva da poco e le dispiaceva che il suo “fratellino-skinhead” avesse un certo tipo di reputazione, soprattutto se si trattava di presentarlo a un grande amico dell’uomo che lei avrebbe voluto sposare. “Seguimi, andiamo qui vicino così ti presento mio fratello”, ha continuato come se si dovesse giustificare mille volte per la situazione. “Sta quasi sempre rinchiuso in camera davanti al computer. Comunque stai tranquillissimo, lui appare aggressivo e sempre incazzato, ma ha un cuore d’oro da pacioccone, dentro è buono come il pane...”
Usciti di casa ci siamo incamminati verso una villetta adiacente. Maria in prima fila e Luca dietro di me. Cercavano invano di rassicurarmi anche se ad intervalli cadevano nel silenzio più profondo. Forse neanche loro erano sicuri di come sarebbe andata. Maria ha bussato a una porta rossa che dava l’accesso a una sorta di seminterrato. Siamo scesi per qualche scalino. Il cuore mi batteva più veloce. Avevo i nervi saldi. L’adrenalina a mille. Ero pronto a rispondere a tono, qualsiasi fosse il tono della conversazione. “Eccoci – ha squillato Maria – ti presento Matteo!”.
Suo fratello era appunto seduto davanti al computer in una stanza piccola quanto uno sgabuzzino. Ci dava le spalle. Mi ricordo la testa rasata, il suo maglione color pece e i jeans da cui sporgeva una catenella. Si è alzato, si è girato e...non avevo mai visto un’espressione tanto imbarazzata sul volto di un uomo. Le guance si erano trasformate in due ciliegie incredibilmente rosse. Aveva gli stessi occhi della sorella. Si sforzava di rimanere serio ma non ce la faceva. Faticava a guardarmi negli occhi. La mia pressione è quindi precipitata, l’adrenalina si è sciolta e i nervi si sono allentati. L’onda aveva raggiunto la riva.
“...Ciao, Matteo...”, gli ho detto porgendogli la mano e sperando che ricambiasse. “...Ciao, Stefano.”, ha esordito stringendomi la sua e indietreggiando istintivamente di qualche millimetro. In quell’istante ho capito una cosa molto semplice: non ero l’unico ad aver passato tre giorni stressanti con un grosso punto di domanda sulla testa. Sembrava più nervoso di me. “Ecco Matteo, lui è il mio fratellino. Fin da quando eravamo piccoli...”, ha ripreso Maria per addolcire la tensione. Non ricordo di cosa avessimo parlato. Lei e Luca erano i più loquaci.
Guardavo Stefano a tratti, come se fosse una specie di star hollywoodiana apparsa finalmente in carne e ossa. Non potevo crederci. Un momento tragicomico che in quel periodo di molte incertezze aveva tradito tutte le mie poche certezze. Sono sempre stato attratto da chi la pensa molto diversamente da me e avevo finalmente raggiunto il limite. Ci siamo quindi salutati dopo neanche due minuti di conversazione. Sapevamo entrambi che, con tutta probabilità, non ci saremmo mai più rivisti. Avevo attraversato il fiume dell’incomprensione anche se solo per alcuni istanti. Ognuno è poi tornato alla sua vita. Ma da quell’incontro, almeno per me, ne era cominciata una nuova.
Matteo Fraschini Koffi per "esreVerse" - 26 settembre 2024