La resa dei jihadisti di Boko Haram
DAKAR, Senegal - Con la recente resa di migliaia di jihadisti nel nord-est della Nigeria, le autorità e la popolazione civile si trovano davanti a un bivio. Da una parte c’è chi insiste affinché la giustizia locale processi tutti coloro che si sono macchiati di crimini durante questi 12 anni di violenze che hanno provocato oltre 35mila morti e almeno due milioni di profughi. Dall’altra, invece, si lavora a soluzioni come «amnistia, deradicalizzazione e reintegrazione». Dal 2009 i militanti islamici di Boko Haram seminano terrore nel Nord in Stati federali come Borno, Kano, Yobe, Adamawa, Gombe, e Bauchi, uccidendo civili, politici e soldati, distruggendo case, negozi e basi militari e compiendo rapimenti di massa colpendo soprattutto studenti minorenni in decine di scuole e sequestrandoli. Dal 2016 si sono aggiunti gli attacchi del Daesh nella provincia dell’Africa occidentale (Iswap), considerati più «magnanimi » con i civili, ma immancabilmente feroci contro le autorità, i soldati e chiunque collabori con gli «infedeli». Boko Haram e Daesh hanno l’obiettivo “gemello” di costituire un califfato che si estenda dalla Nigeria all’intera regione del Sahel.
Per questo la gente ha ancora più paura e rabbia. E rintegrare nella società civile individui che hanno compiuto massacri o hanno assistito i jihadisti nella loro brutale offensiva, è tutt’altro che semplice. Ancora più difficile sembra però l’operazione di processare migliaia di persone, molte delle quali (minorenni e figli di jihadisti) considerate innocenti, basandosi su un sistema giudiziario che, secondo gli esperti locali e internazionali, non sarebbe in grado di afffrontare una sfida tanto delicata. Lo stesso dilemma che si era posto alle autorità ruandesi dopo il genocidio del 1994, nonostante l’esistenza del tribunale internazionale di Arusha. «Quasi 6mila membri di Boko Haram, incluse decine di comandanti con le loro famiglie, si sono arresi nelle ultime due settimane davanti all’esercito – hanno affermato venerdì le autorità nigeriane –. Tra di loro, oltre ai nigeriani, ci sono anche ex jihadisti originari di Ciad, Camerun, e Niger».
Spaccata in due, la società civile sta riflettendo su quale direzione prendere per raggiungere la meta principale: debellare l’insurrezione jihadista. Intellettuali, politici e comuni cittadini non hanno ancora trovato un accordo rispetto a come trattare i jihadisti «pentiti ». Il governo, intanto, ha lanciato due programmi per la loro «riabilitazione». Il primo, Operazione corridoio sicuro (Osc), è gestito direttamente dall’esercito e sostenuto da un gruppo di esperti in vari settori come quello investigativo, giudiziario e medico. L’Osc è rivolto ai militanti «meno pericolosi»: giovani ragazze, minori, ex combattenti di basso livello e residenti delle aree occupate dai terroristi costretti ad aiutarli in differenti modi. Il secondo, avviato segretamente nel 2016, tratta invece i jihadisti «maggiormente pericolosi », coloro che hanno avuto ruoli di spicco nelle due organizzazioni terroristiche.
Ad oggi almeno 150 terroristi sono finiti nel programma che prevede l’amnistia e un sostegno economico in cambio della loro totale collaborazione nel fornire informazioni e nell’aiutare le autorità a spingere altri jihadisti ad arrendersi. «È l’unica nostra scelta per sconfiggere il terrorismo islamico in Nigeria – ammette Babagana Zulum, governatore dello Stato del Borno –. Non potremo mai dimenticare ma dobbiamo riuscire a perdonare».
Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 5 settembre 2021 © RIPRODUZIONE RISERVATA