Il Covid-19 complica i ritorni in Africa «Qui è difficile, ma aiuto il mio Paese»
DAKAR, Senegal - «Amo l’Italia. Ho avuto la fortuna di non essere mai stato vittima di esempi di discriminazione nei miei confronti. L’unica cosa che mi ha costretto a tornare nel mio Paese era il fatto di non avere ottenuto i documenti necessari per continuare la mia esperienza italiana».
Mamadou Kabirou Seydi è un di senegalese 28 anni che dice di sentirsi siciliano. La sua storia non è atipica. Come molti altri giovani migranti dell’Africa occidentale, Mamadou ha infatti trascorso due anni vivendo e lavorando in diversi Paesi dell’Africa sub– sahariana, rischiando la vita nell’attraversare la Libia e il Mar Mediterraneo, prima di approdare nel 2014 in Italia con la speranza di trovare un buon lavoro per spedire denaro alla sua famiglia.
Ha vissuto a Piazza Armerina, in provincia di Enna. Ma dopo quasi sei anni in attesa dei cosiddetti «papiers » italiani, la sua avventura all’estero è terminata. Per questo ha usufruito del programma di “rimpatrio volontario assistito” dell’organizzazione Volontariato internazionale per lo sviluppo ( Vis) che ha seguito il volo di ritorno dello scorso dicembre in Senegal e lo sta aiutando con la reintegrazione nella società locale. «Vivere nuovamente nella mia comunità è davvero difficile», continua Mamadou, il quale, dopo aver lavorato come falegname in Senegal e in Italia, ora ha un negozio di alimentari alla periferia della capitale senegalese, Dakar.
«Un migrante che torna a casa senza soldi o senza documenti per viaggiare di nuovo in Europa viene definito uno stupido o un pazzo. Siccome i miei genitori sono già morti – conclude –, cerco di sostenere i miei fratelli, ignorando i commenti cattivi del resto della mia comunità con cui ormai ho smesso di comunicare». Da quando l’Unione Europea ha iniziato nel 2016 a finanziare progetti di «rimpatrio volontario» con la pretesa di fermare la migrazione verso il Vecchio Continente, oltre «75mila migranti sono tornati nei loro Paesi d’origine in Africa occidentale». Un’operazione che ha scosso le coscienze di molte organizzazioni umanitarie, incaricate di mettere in atto tali programmi, e danneggiato gli interessi di vari governi africani, abituati a sfruttare le rimesse dei loro connazionali all’estero per sostenere l’economia locale.
«Per il Vis la mobilità umana può essere un fattore di sviluppo laddove è consapevole e informata di rischi e opportunità », spiega Nico Lotta, presidente della Ong. «Con questo progetto puntiamo ad aiutare chi sceglie di rientrare nel proprio Paese di origine a farlo in modo costruttivo e sostenibile. Il piano si inserisce nell’ambito del programma “Stop Tratta” – continua Lotta –, realizzato insieme a Missioni Don Bosco, con l’obiettivo di far conoscere i rischi della migrazione irregolare e offrire opportunità di sviluppo in loco». Gran parte dei finanziamenti dell’Ue arrivano attraverso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Alla fine del 2016 furono infatti stanziati 174 milioni di euro per individuare i migranti diretti verso l’Europa, rimpatriarli e assisterli nel ricominciare una vita nel loro Paese d’origine. Un’assistenza che però ha dei limiti. Gli aiuti «economici, sociali e psicologici» possono infatti durare da alcune settimane a circa due anni. Per questo all’interno delle agenzie umanitarie ci sono forti dubbi rispetto alla sostenibilità di tali programmi.
«Si tratta di misure temporanee poiché non possiamo sostituirci agli stessi Stati africani», afferma Florence Kim, portavoce dell’Oim nell’ufficio regionale di Dakar per l’Africa occidentale e centrale. «L’Oim interviene attraverso varie iniziative per aiutare un migrante rimpatriato ad affrontare i traumi di tale esperienza. In seguito, però – continua Kim –, tocca alle autorità locali prendere in mano le redini e continuare il nostro lavoro». A causa della pandemia di coronavirus, la situazione si è particolarmente complicata per i migranti di ritorno. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha registrato finora «oltre 24.000 casi di Covid–19 in Africa, 1.100 morti e 6.250 guariti».
Per questo anche i governi e le organizzazioni umanitarie si stanno adattando, distribuendo ai loro beneficiari materiale di prima necessità e denaro per sostenere le attività imprenditoriali lanciate dopo il ritorno nel Paese.
«In 15 anni di Italia ho visto come il settore dell’immigrazione e del lavoro è peggiorato radicalmente – sostiene Mamadou Mbaye, imprenditore di 50 anni, tornato in Senegal nel 2017 perché non riusciva più ad avere il permesso di soggiorno –. Sebbene a causa del coronavirus ora è tutto fermo, sono molto felice di essere di nuovo a casa con la mia famiglia e di lavorare nel mio Paese».
Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 26 aprile 2020 © RIPRODUZIONE RISERVATA