NIGER: Agadez, la Lampedusa del deserto

per Avvenire

Morte di sete 40 persone in pieno Sahara. In viaggio con i profughi che sognano l’Europa

AGADEZ (NIGER) - L’ ennesima strage si è consumata nei giorni scorsi nel deserto d’arenaria che divide il Niger dall’Algeria. Quaranta persone – ma il numero esatto è incerto e forse non lo sapremo mai – in larga parte donne e bambini, sono morte di sete nel deserto. Erano tutti abitanti poverissimi del Niger e cercavano di raggiungere l’Algeria, dove vivere d’elemosina. Raggiunta Arlit – ultimo centro abitato prima del confine, sorto attorno a due miniere di uranio a cielo aperto, a 150 chilometri da Agadez – i migranti si erano stipati su due camion presi a noleggio. Sull’aspro altopiano dell’Air, fatto di roccia e null’altro, che attira da tutto il mondo gli appassionati di sport estremo, uno dei due camion si è bloccato per un guasto. Il secondo automezzo, scaricati i suoi passeggeri, ha invertito la marcia per andare, vuoto, in cerca dei pezzi di ricambio, abbandonando i passeggeri del veicolo in panne. Quando l’acqua è terminata, questi si sono messi in marcia in piccoli gruppi, sperando di raggiungere un’oasi. Sono finiti tutti inghiottiti dal deserto tranne 19, tornati ad Arlit grazie a passaggi di fortuna.
Costoro hanno dato l’allarme ma le pattuglie dell’esercito hanno trovato soltanto pochi cadaveri disseccati dal sole. Alcuni viaggiatori hanno riferito di aver visto lungo la pista decine di cadaveri. Nulla da fare per loro e impossibile fermarsi, per non fare la stessa fine. Il sospetto è che i conducenti dei due camion fossero veri e propri trafficanti di esseri umani, che si sono limitati ad abbandonare il loro 'carico', condannando i malcapitati a morte pressoché sicura.

G li occhi lucidi e i muscoli in tensio­ne. Le vene del collo gonfie, quasi pronte ad esplodere. Abubakar, se­negalese sui 25 anni, non può però per­mettersi né di piangere né di reagire. Un minimo gesto sbagliato potrebbe costargli l’intero viaggio. Il tonfo dello schiaffo con cui il militare lo ha appena colpito al viso si è sentito persino fuori dalla stanza. La tensione fra i passeggeri si fa “densa”. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. Un al­tro soldato si tuffa sul gruppo di migranti per evitare che il collega continui con le violenze. Ma questi non è meglio del pri­mo. Dopo aver notato il mio passaporto i­taliano, con la scusa della mancanza del li­bretto giallo delle vaccinazioni (solitamente richiesto solo in aeroporto o alle frontiere), porta il giovane senegalese nell’ufficio ac­canto, chiude finestre e porta, e al buio e­sige immediatamente «5mila franchi Cfa (7 euro), altrimenti non passi!». Una som­ma irrisoria per un europeo, una fortuna per un migrante africano in cammino ver­so l’El Dorado europeo. Sogno o chimera non importa. Per chi, come Abubakar, cre­sce in un continente dilaniato da guerre e disoccupazione, è facile credere di non a­vere altra scelta se non quella di lasciare fa­miglia e amici, e rischiare la propria vita at­traversando il Sahara e il Mediterraneo.
Dopo mezz’ora si risale tutti sul pullman. Anche questo mezzo, per una tragica iro­nia, è uno dei tanti ef­fetti collaterali degli anni di conflitto nel­la regione. «Molte delle compagnie di bus che girano quo­tidianamente per l’A­frica occidentale e ar­rivano ad Agadez so­no gestite dai tuareg – assicura Mohamed, tuareg maliano diretto in Europa – e ven­gono finanziate con i soldi dei traffici di droga e armi». Il viaggio è iniziato a Lomé, in Togo. I taxi per Cotonou, in Benin, oltre all’autista e alla mercanzia, trasportano due persone davanti e quattro dietro. Il “prez­zo” del biglietto è di 5mila franchi Cfa (7 euro) per quattro ore di strada. Da Cotonou, si prosegue via bus per Niamey, capitale del Niger, dove si arriva nel pomeriggio del giorno successivo. È in Niger, alla frontiera di Gaya, che iniziano i posti di blocco. Riu­scire a scansarli è la principale sfida del tragitto Niamey-Aga­dez, lungo una strada sospesa nel nulla. Si parte prima dell’alba e, se tutto va bene, si arriva alle 22. Agadez è una Lampedusa del deserto. È qui che si ra­dunano ogni giorno migliaia di giovani migranti africani. Pro­vengono da Nigeria, Guinea, Mali, Liberia... Negli oltre 50 “ghetti” che costellano que­sta storica città di circa 150 mila abitanti, si ammassano, le une sulle altre, le storie di ordinaria disperazione e i loro protagoni­sti. «Un gruppo di soldati in Burkina Faso mi ha rubato i soldi e persino le scarpe», racconta un giovane del Gambia. «Ho do­vuto camminare a piedi nudi per 70 chilo­metri fino al confine con il Niger – continua mostrando le vesciche sotto i piedi – sto a­spettando da settimane che la mia fami­glia mi spedisca altri soldi per continuare verso l’Europa». Nell’ultimo posto di con­trollo nei pressi di Agadez si lasciano i do­cumenti d’identità. Il giorno successivo si passa a recuperarli. «Lei ha una telecame­ra nascosta nella camicia?», è la prima do­manda posta con particolare freddezza da un ufficiale. Sarebbe molto preoccupante mostrare al mondo le condizioni in cui la­vorano le autorità locali. I posti di blocco sono costituiti da modeste costruzioni: quattro pareti spoglie coperte da un sem­plice tetto di paglia. Gli agenti si rivolgono ai migranti con particolare arroganza, ag­gressività e comprensibile frustrazione. Non ci sono i mezzi per controllare un flus­so così dirompente di disperati. «Vi prego, sono della Costa d’Avorio e non posso tor­nare a casa fino a quando non trovate il mio passaporto», supplica un uomo che da due mesi è senza documenti. Buttando l’occhio per terra, nell’angolo della stanza, si nota il cosiddetto “archivio”: un mucchio im­polverato, alto quasi un metro, di passa­porti, schedine e fogli d’identità. «Il nume­ro di irregolari è diminuito grazie all’au­mento dei controlli sulla strada principale verso la Libia – attesta un recente rappor­to dell’organizzazione non governativa Bambini nel deserto. – Il giro di vite, però, ha spinto tanti migranti a scegliere vie na­scoste, assai più pericolose». Molti non hanno scelta. Devono in tutti i modi anda­re verso il nord. Altri invece ritornano nei Paesi d’origine. Entrambi i gruppi voglio­no comunque scappare da Agadez dove non si sentono più al sicuro. «L’ultima vol­ta che uno studio dell’Onu ha accusato l’amministrazione nigerina di abusi – af­ferma un operatore umanitario sotto ano­nimato – le forze di sicurezza hanno im­prigionato tutti i migranti per settimane e li hanno puniti». Per questo sono pochi quelli che hanno il coraggio di raccontare le loro esperienze. Inoltre, dopo gli atten­tati dei qaedisti del Movimento per l’uni­cità e la jihad in Africa occidentale (Mujao) avvenuti il 23 maggio scorso – in cui 20 mi­litari nigerini sono morti – Agadez sta di­ventando sempre più pericolosa. Né gli a­busi né il terrorismo, però, fermano il traf­fico di esseri umani. Il commercio illegale di persone o cose resta una preziosissima fonte di denaro non solo per i trafficanti, ma anche per chi dovrebbe garantire la legge.

«Solo i più fortunati sopravvivono»

« A gadez ha sempre rappre­sentato un crocevia fon­damentali per i commerci che avvenivano all’interno dell’Africa oc­cidentale, soprattutto nel territorio saha­riano », spiega Ibrahim Manzo Diallo, fon­datore del sito d’informazione Aïr infos di base ad Agadez e una delle voci più autorevoli nella regione. Ma, secondo Diallo, che per i suoi reportage scomodi e coraggiosi è stato imprigionato dal go­verno per quattro mesi nel 2007, «durante gli ultimi anni il traffico di migranti è au­mentato in modo esponenziale».

Come può a sostenerlo?

Anni fa incontravo migranti che veniva­no solo dalla Nigeria o dal Gha­na. Ora, però, parliamo di gen­te che arriva addirittura dal Gambia, dalla Sierra Leone, dal Sudafrica persino. Ogni anno, il numero di queste persone aumenta e, di conseguenza, cresce anche il business. Chi sfrutta i disperati, purtroppo, guadagna profitti incredibili.

Il fenomeno della migrazione clandestina sembra assai difficile da controllare, è d’accordo?

Assolutamente. Migliaia e migliaia di gio­vani africani passano per Agadez ogni mese con l’intenzione di affrontare il de­serto per arrivare nel Nord Africa e, da lì, compiere il grande balzo verso l’Europa. I migranti che non hanno la possibilità di procurarsi un visto sono costretti a na­scondersi e a scegliere le vie più perico­lose. Sono maltrattati dalla polizia, dai gendarmi, dai militari e, se sono molto fortunati, arrivano vivi alle co­ste del Mediterraneo.

Secondo lei i migranti cono­scono i rischi che corrono?

All’inizio pensavo che tutti i­gnorassero ciò che avrebbe­ro trovato sul cammino. Ma dopo diversi anni e interviste, posso affermare che una buona parte di loro conosce molto bene i rischi che corre. I migranti decidono di partire comun­que. Perché sono disperati. Questo li spinge ad affrontare il viaggio. Sapendo che il deserto è la sete, il deserto è la morte.

la testimonianza - «La mia marcia infernale di tre giorni senza acqua»

« C i sono persone molto cattive nel deserto», af­ferma Abdullahi Abdurah­man, trentenne magrissimo, ora cuoco in un piccolo bar nel centro storico di Agadez. «Eravamo un gruppo di 30 persone e avevamo una pic­cola sacca con qualche vesti­to e delle scatole di sardine – continua a ricordare. – La gui­da che aveva promesso di portarci in Libia ci ha abban­donato invece tra le montagne dell’Algeria».
Non potendo passare con mezzi legali, Abdullahi e i suoi compagni hanno pagato un ragazzo al­gerino che avrebbe dovuto accompagnarli per una stra­da più pericolosa ma meno controllata dalle autorità. «Durante il tragitto, sentiva­mo l’aviazione algerina pas­sarci sopra la testa – racconta il giovane. – Tutti pregavamo affinché gli aerei non bom­bardassero il nostro veicolo, come a volte accade se si vie­ne scambiati per terroristi o trafficanti di droga».
Dopo due giorni di viaggio, il camion si è fermato. Era not­te fonda. La guida ha indica­to ai passeggeri un gruppo di luci e ha assicurato: «Quella è la Libia». «Ma non era vero. E­ravamo ancora in Algeria – continua Abdullahi. – Il gior­no dopo siamo stati attaccati da alcuni banditi armati che, oltre a picchiarci, ci hanno portato via tutto: soldi, vesti­ti e cibo». Il gruppo di mi­granti si è allora diviso. Molti hanno preso la via del ritor­no, altri, come Abdullahi, hanno continuato: ognuno per conto proprio, sceglien­do la strada che speravano li avrebbe portati il più veloce­mente possibile in Libia. «Ho camminato per tre giorni sen­za né mangiare né bere», rac­conta il ragazzo con gli occhi socchiusi, co­me se tentasse di non rivivere quei giorni di insostenibile sofferenza.
«Osservavo i re­sti dei cadaveri di chi aveva cercato di attra­versare il deserto prima di me – spiega – è stato terribile. Io stesso sono quasi morto». Ar­rivato al confine, alcuni mili­tari hanno regalato ad Abdul­lahi dei datteri e una magliet­ta, e gli hanno mostrato la strada verso la Libia. «Mia so­rella, che abitava là, mi ha o­spitato: ho lavorato a Sabha per due anni. Non avendo, tuttavia, abbastanza denaro per andare in Europa, mi so­no trasferito ad Agadez per la via legale – conclude. – Co­munque, sarei disposto a ri­farlo. Come si può vivere sen­za lavoro?»

LA GRANDE FUGA - LA MIGRAZIONE SENZA FINE E L’IMPOSSIBILE CONTABILITÀ DELLA MORTE

Agadez, fondata nell’XI secolo, ha iniziato ad essere una tappa fondamentale per il commercio transaha­riano circa 400 anni più tardi. Negli ultimi 20 anni, drammaticamente, la “merce” più trafficata sono gli esseri umani. È impossibile avere delle statistiche certe sulla quantità di donne e uomini che passa per l’enclave. Ogni settimana un convoglio militare percorre la via tra Agadez e la frontiera libica, facendo sosta a Dirkou, e utilizzando i loro camion come scorta a mercanzia e migranti. Secondo il sito www.exo­dus-programma.org, tra marzo e agosto 2013, sono passati per Dirkou 30.056 migranti, metà dei quali nigerini (per ora solo il 5 per cento dei nigerini prosegue per l’Europa, il resto rimane nel Nord Africa a cercare lavoro). Gli altri provenivano da Ghana, Nigeria, Burkina Faso, Guinea Bissau, Camerun, Senegal e altri Stati dell’Africa occidentale. Nello stesso semestre, i veicoli registrati al commissariato di Dirkou sono stati oltre 900 e le donne che sono riuscite ad arriva­re sono state poco più di 300. Molte di loro sono costrette a prostituirsi per continuare la strada, una parte non rie­sce a sopportare le violenze e torna indietro. Dagli inizi degli anni Novanta, solo il 10 per cento degli irregolari che parte dall’Africa occidentale utilizza la via del mare. Il re­stante 90 per cento preferisce l’estenuante viaggio via ter­ra. Si ignora, in ogni caso, il numero di persone che passa per le vie più nascoste e maggiormente pericolose. Im­possibile pure conoscere il numero esatto di migranti che muore di fame e sete in mezzo al deserto. Tutte le fonti lo­cali concordano, però, su un punto: sono tanti. ( M.F.K.)

 

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Matteo Fraschini Koffi - Giornalista Freelance