Venduti e trasferiti in altri Stati: il mercato dei bimbi nell’Ovest del continente

per Avvenire

DA LOMÉ ( TOGO) -G li occhi di Marie sono gonfi di lacrime per la commozione. Dopo sette anni alla mercé di trafficanti e di una famiglia che la schiavizzava, il suo lungo e dram­matico viaggio è quasi finito. Ac­compagnata dallo staff dell’organiz­zazione non governativa togolese “E­space Fraternité”, Marie è arrivata al­la frontiera tra Togo e Benin. Gli o­peratori umanitari beninesi che l’hanno ricevuta, si occuperanno di riportarla immediatamente dalla sua famiglia, in un villaggio nel centro del Paese.
«Una storia incredibile: aveva 12 an­ni quando è partita da casa», spiega Mack Chilé Adodo, direttore di E­space e Fraternité, che si è personal­mente recato alla frontiera con il Be­nin insieme a Marie. «Ha subito mal­trattamenti e umiliazioni per ben set­te anni in un Paese straniero in cui non conosceva nessuno. Ora ha 19 anni – continua Adodo –, e siamo molto felici che sia di nuovo a casa sua».
La ragazza era stata consegnata dal­lo zio a un trafficante che, con una somma equivalente a dieci euro, era riuscito a procurarsi un altro mino­re da vendere in Nigeria. Dopo esse­re arrivati a Lagos, tra le città com­merciali più importanti del Paese, Marie è stata introdotta a una fami­glia che per anni l’ha fatta lavorare senza mai pagarla. Spesso veniva pic­chiata e difficilmente poteva uscire dall’abitazione. Un giorno, la giova­ne è riuscita a scappare ed è stata tro­vata per strada dallo staff di un’altra Ong nigeriana che lotta contro la trat­ta. Erroneamente, Marie, di nazio­nalità beninese appunto, è stata por­tata al consolato togolese di Lagos, che, a sua volta, le ha pagato un bi­glietto per Lomé, dove è stata presa in cura da un centro statale che o­spita temporaneamente minori in difficoltà. «È li che l’ho trovata ed è i­niziato il nostro lavoro di accompa­gnamento verso casa sua», afferma Adodo.
Marie è solo una delle centinaia di vittime della tratta di esseri umani aiutate ogni anno dall’organizzazio­ne togolese. Gran parte di esse riper­corrono gli stessi passi che per seco­li hanno solcato la ignobile costa de­gli schiavi. Mack Adodo, che è anche coordinatore di Rao-Togo, una rete di oltre 40 associazioni locali che combattono tale fenomeno, conti­nua a ricevere telefonate e dossier su altri casi.
Tutti i Paesi della Comunità econo­mica degli Stati dell’Africa occiden­tale (Ecowas) stanno cercando, se­condo i propri mezzi, di ridurre la tratta, una piaga che coinvolge mi­lioni di civili nella regione: donne e uomini, adulti e bambini. È pratica­mente impossibile fornire delle cifre esatte relative a questo fenomeno e­stremamente volatile. Alcune stati­stiche parlano di «circa 10 milioni di persone all’anno che migrano per gli Stati dell’Africa occidentale», e ri­schiano di essere trafficate.
Centinaia di migranti provenienti da Paesi come Gambia, Mali, Guinea, Ghana, Togo, lavorano per 10 ore al giorno nelle miniere d’oro del Sene­gal. Scavano fino a 15 metri di profondità. Vicino a questi siti si for­mano anche dei bordelli dove le ra­gazze sono costrette a prostituirsi. Nel sud della Nigeria, invece, le vit­time della tratta spesso spaccano pietre per le società di costruzione. I minori guadagnano circa 30 cen­tesimi di euro al giorno e dormono all’addiaccio nella foresta.
Ma la tratta è alimentata anche da casi interni allo stesso Paese. Molti bambini togolesi, per esempio, lavo­rano nei mercati o per le strade. In Costa d’Avorio, invece, nelle pianta­gioni di cacao e caffè, in Burkina Fa­so nelle miniere d’oro e di altri me­talli preziosi. Le associazioni locali, nonostante siano finanziate da or­ganizzazioni e governi a livello inter­nazionale, si lamentano dei pochi mezzi a disposizione.
Inoltre, le autorità sul territorio spes­so non hanno le capacità o la vo­lontà di gestire un problema che pare insormontabile. «Non possia­mo basarci solamente sulle nostre forze – dice Adodo che cerca di ce­lare con un sorriso la sua frustra­zione –, con la crisi economica e il rapido aumento della nostra popo­lazione, i casi di tratta aumentano quotidianamente».
Il telefono del direttore squilla di nuo­vo. La gendarmeria vuole che Adodo si rechi al più presto a Kara, nel nord del Togo. «Hanno fermato una per­sona che sta trafficando nove bam­bini dal Ghana alla Nigeria – conclu­de –. Mi scusi, ma devo scappare».

«Le leggi ci sono, ma in molti non le applicano»

Come specialista re­gionale per l’assi­stenza ai migranti, Laura Lungarotti lavora a Dakar (Senegal), nell’ufficio Regionale per l’Africa Occi­dentale e Centrale dell’Or­ganizzazione internaziona­le per la migrazione (Oim). «La tratta è un fenomeno molto complesso», spiega Lungarotti: «Per questo la­voriamo molto attraverso la sensibilizzazione diretta delle popolazioni e la costi­tuzione di partenariati con le autorità locali».

Può spiegare come gestite l’assistenza alle vittime del­la tratta?

Il nostro obiettivo è portare un’assistenza immediata al­le vittime e, nei casi in cui ci sono le condizioni, reinte­grarle nelle loro famiglie d’origine. L’Oim viene quin­di contattata da organizza­zioni non governative loca­li, funzionari, e da ogni per­sona che viene a contatto con questa categoria vulne­rabile di migranti. Durante l’intero processo, forniamo un’assistenza diretta attra­verso l’identificazione della vittima, cure sanitarie, un posto sicuro dove vivere, e uno studio sociale della fa­miglia. Inoltre procuriamo, quando necessario, i docu­menti per il viaggio di ritor­no. Nel caso di minorenni, questo processo deve esse­re fatto nel rispetto dell’in­teresse del minore e in per­fetto partenariato con le au­torità di tutela nel paese d’i­dentificazione e di origine.

Come cercate di migliorare le capacità di intervento delle autorità locali?

Attraverso vari approcci: or­ganizziamo con­ferenze, forma­zioni, forniamo assistenza nei ca­si di revisione le­gislativa e attua­zione della legge, e ci impegniamo a rafforzare una maggiore coope­razione transna­zionale. Alcuni dei progetti in corso riguar­dano per esempio la forma­zione di una rete di suppor­to contro la tratta dei bam­bini in Guinea Bissau dove abbiamo fornito formazio­ni per una corretta applica­zione della legge a funzio­nari governativi e guardie di frontiera. In Niger stiamo invece promuovendo l’at­tuazione della legge per cri­mini legati alla tratta di es­seri umani di modo che sia­no in linea con i parametri legali a livello internaziona­le e regionale.

Nel lavorare con le autorità locali, quali sono le sfide e i traguardi raggiunti?

Prima di tutto è necessaria una de­terminata volontà politica affinché la cooperazione con i governi locali abbia successo e la legge sia ap­plicata. La maggioranza dei Paesi in Africa occidentale ha adottato la legislazione contro la tratta ma non la applica in modo sistemati­co, per esempio non hanno registri delle vittime identi­ficate o dei trafficanti processati.
Nel caso del­la Guinea Bissau, no­nostante l’incertezza politica che regna nel Paese, ab­biamo notato un impegno rafforzato da parte delle au­torità e organizzazioni non governative, soprattutto in relazione alla lotta contro la tratta dei minori. Inoltre, ci sono anche casi di succes­so ottenuti grazie all’impe­gno degli ufficiali locali.

In quali casi il ritorno nella famiglia o nel Paese d’ori­gine è la miglior soluzione per le vittime della tratta?

Il ritorno è la migliore solu­zione solo quando è il desi­derio della persona in que­stione e solo dopo che ci sia stato uno studio pertinente dei possibili rischi. Ma il rimpatrio non avviene sem­pre poiché alcune vittime della tratta possono temere persecuzioni e minacce al­la loro vita o libertà una vol­ta tornati nel Paese d’origi­ne. In questi casi entrano però in gioco le procedure per richieste d’asilo o altri meccanismi alternativi di protezione delle vittime in loco da parte delle autorità.

IL CENTRO La speranza nel cuore di Lomé si chiama Kekeli: «Lottiamo ogni giorno per strapparli alla strada»

« N on potrei fare nessun altro la­voro », afferma Mensa Kofi A­samoa, coordinatore del di­partimento educativo presso il centro Keke­li per la protezione del bambino: «Quando torno a casa la sera e rifletto sul fatto che ci siano ancora così tanti bambini che vivono per strada – continua Asamoa – sento un grande dolore al cuore».
Il centro Kekeli, fondato dalle suore carme­litane nel 2006, ha deciso di mettere il suo e­dificio nel centro del mercato di Hanouko­pe, uno dei polmoni finanziari di Lomé. È proprio lì che centinaia di minori, dai tre an­ni in su, lavorano per i loro cosiddetti «pa­tron », i loro padroni. «Un bambino che gira per il mercato vendendo cibo può fruttare qualche decina di euro al mese – spiega A­samoa – sono tanti soldi qui ed è quindi dif­ficile negoziare con il patron e lo stesso bam­bino affinché quest’ultimo torni a scuola».
Il centro Kekeli, che significa «luce» nella lin­gua locale minà, si occupa soprattutto della tratta di bambini interna al Togo, un feno­meno che, secondo Asamoa «richiede una costante sensibilizzazione della popolazio­ne locale». ( M.F.K.)

I NUMERI Dopo 400 anni milioni di minori ancora «in catene»

Un tempo quelle poche centinaia di chilometri che attraversavano Togo, Benin e Nigeria, fornivano gran parte degli schiavi destinati all’America. Da allora poco sembra cambiato. Il buco nero dello schiavismo che tra il 1600 e 1800 ha costituito una macchia indelebile della storia umana, ora si ripete soprattutto all’interno del continente stesso.
Le dinamiche sono simili. Solo che al posto di rum e fucili, è il denaro che compra gli schiavi di oggi. Sono rarissime le stime che possano descrivere in generale la situazione della tratta di esseri umani in Africa occidentale. Molte organizzazioni, infatti, preferiscono basarsi sui numeri di persone direttamente aiutate. Ma per fare alcuni esempi, gli analisti affermano che: in Benin 400mila bambini lavorano, costretti o perché “persuasi” dai trafficanti. In Costa d’Avorio sono 600mila i bambini metaforicamente «incatenati», come i loro antenati realmente venivano legati alla chiglia delle navi che li portavano in America. E molti di essi si trovano a lavorare nelle piantagioni di cacao e caffè. In Nigeria, invece, il lavoro forzato minorile coinvolge 12 milioni di bambini, una parte costituita di nigeriani, mentre il resto delle vittime proviene da altri Paesi della regione occidentale. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite: «A livello globale, i minori rappresentano circa il 20% delle vittime di tratta, ma in diverse parti dell’Africa occidentale – afferma lo studio realizzato dagli esperti di migrazioni dell’Onu – i bambini ne costituiscono il 100%». Questa forma moderna di schiavitù si stima, a livello mondiale, che possa fruttare a trafficanti e datori di lavoro fino a 12 miliardi di dollari l’anno.

 

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Matteo Fraschini Koffi - Giornalista Freelance