Salomi è libera, ma 104 sono nel nulla
Sono passati quasi quattro anni, ma Salomi Pogu è finalmente tornata a casa. La giovane era stata trovata all’inizio di gennaio durante un’offensiva militare dell’esercito nigeriano contro i jihadisti di Boko Haram nella foresta di Sambisa.
È lei l’ultima «Chibok-girl» liberata. Poco prima di Salomi, a novembre del 2016, i militari avevano salvato anche Maryam Ali Maiyanga insieme ad Ali, il figlio di 10 mesi. «Il desiderio di ogni nostro soldato è di liberare tutte le li- ceali di Chibok», ha dichiarato il generale nigeriano Rogers Nicholas, a capo dell’operazione “Lafiya Dole” (Pace ad ogni costo, nella lingua hausa,
ndr) lanciata per «cacciare i jihadisti dal nord-est del Paese ». Ad oggi, però, 104 studentesse di Chibok rimangono ancora prigioniere. Quelle che dopo anni sono invece riuscite a riabbracciare i propri genitori hanno passato un intenso programma di riabilitazione fisica e mentale prima di essere nuovamente integrate nella società. Altre sono purtroppo ritornate dai jihadisti. «La riabilitazione è un lungo percorso, complicato dal fatto che la guerra è ancora in atto – ha spiegato recentemente Akilu, a capo della Neem foundation, incaricata di supervisionare il programma –. Essere ancora una volta accettate nella vita normale è un’impresa che può durare anni».
Era il 14 aprile del 2014 quando i ribelli attaccarono nella notte una scuola di Chibok, costringendo 276 liceali a salire sui loro mezzi. Mentre molte sono scappate, circa 210 di esse sono state trasportate con forza nella foresta. Il rapimento di massa ha provocato l’indignazione della comunità internazionale che, insieme all’ex First Lady statunitense, Michelle Obama, ha aderito sul Web alla campagna «Bring back our girls» (Riportate indietro le nostre ragazze).
Lo scorso maggio, il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, aveva incontrato 82 studentesse liberate. Le giovani avevano però subito un devastante lavaggio del cervello durante la prigionia. Alcune, invece, avevano sposato vari insorti della setta jihadista. «Aisha Yerima, 25 anni, era diventata moglie del comandante ribelle, Mamman Nur – ha raccontato l’anno scorso la scrittrice nigeriana, Adaobi Tricia Nwaubani –. Lei è tornata subito da lui sebbene fosse stata liberata e avesse partecipato al programma di reintegrazione».
Secondo gli esperti, sono «almeno 145 le bambine o ragazze utilizzate da Boko Haram come bombe-umane». La più piccola aveva 7 anni. Si è fatta esplodere a febbraio del 2015 nella località settentrionale di Potiskum uccidendo altre cinque persone.
L’imprendibile capo Shekau «fatto scappare dai militari»
Secondo le ultime informazioni, Abubakar Shekau (nella foto) è fuggito settimana scorsa dal suo nascondiglio coperto da un hijab, l’abito femminile islamico. Il capo della principale fazione di Boko Haram sembra infatti avere molte vite. L’esercito nigeriano l’ha dichiarato «morto» almeno quattro volte, per poi ritrovarselo davanti a una telecamera vivo e ancora più arrabbiato di prima.
Shekau, conosciuto anche con il nome di Darul Tawheed, ha iniziato la lotta armata con Boko Haram nel 2002, come vice del defunto fondatore, Mohammed Yusuf. In seguito all’uccisione di quest’ultimo nel 2009, Shekau ha preso il potere e ha intensificato l’offensiva jihdista. «Le autorità lo accusano di rapimenti, attentati suicidi, massacri, distruzione di edifici e altro – affermano gli analisti dell’intelligence –.
Nessuno sembra però capace di catturarlo». L’emittente inglese, “Bbc”, ha invece intervistato un militare nigeriano che ha dichiarato di come al suo plotone, «giunto molto vicino a Shekau», sia stato ordinato di non arrestarlo. Durante il 2015, il leader jihadista ha giurato fedeltà al Daesh, sebbene sia stato poi sconfessato dallo stesso gruppo nel 2016 a causa dei suoi numerosi attentati contro civili innocenti. E proprio da allora sarebbero iniziate le prime forti divisioni all’interno del gruppo di ribelli ora frammentato in diverse fazioni.
Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 22 febbraio 2018
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