Congo, primi vaccini contro ebola Piano regionale per fermare il virus
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L’ebola continua a fare paura. Il virus è tornato a colpire nella zona nordoccidentale della Repubblica democratica del Congo: nonostante gli sforzi per contenere la crisi, le autorità hanno infatti rilevato un altro caso di contagio. «Un paziente della comunità rurale di Iboko è risultato positivo alla febbre emorragica – riferiva nei giorni scorsi una nota del ministero della Salute congolese –. Il malato era una persona entrata in contatto con una vittima morta di ebola il 20 maggio».
Da quando la nona epidemia in Congo è stata dichiarata l’8 maggio nella località di Bikoro, sono almeno 27 i morti e 62 i casi di contagio confermati o sospetti. A differenza della crisi che colpì nel 2013-16 l’Africa occidentale causando oltre 11.300 morti, questa volta l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si è mossa più velocemente. Per la prima volta, infatti, le agenzie governative e umanitarie stanno effettuando delle vaccinazioni con l’obiettivo di contenere l’espansione della malattia. Al momento i potenziali malati ricevono l’rVsv-Zebov, un vaccino ancora sperimentale prodotto inizialmente in Canada e ora di proprietà della Merck& Co., una società americana. Ma sul territorio sono presenti anche altri farmaci pronti per essere utilizzati come Zmapp, GS-5734, Regn-EB3, e mAb114. «Oltre 1.800 operatori sanitari e civili hanno ricevuto un vaccino sperimentale provato verso la fine della crisi precedente in Sierra Leone, Guinea e Liberia – ha confermato l’Oms –. Siamo cauti e allo stesso tempo ottimisti riguardo al controllo della situazione».
L’ultimo caso di contagio era stato rilevato il 30 maggio, sempre a Iboko. Il ministero della Salute ha però aggiunto che gli operatori stanno valutando altri cinque casi sospetti». Due di essi sono a Mbandaka, una città di circa 1,5 milioni di abitanti e un punto sensibile per il rischio di propagazione della malattia. «Stiamo lavorando a un piano antiebola per i nove Stati vicini alla Repubblica democratica del Congo – ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, capo dell’Oms –. L’obiettivo è fare muro nel caso in cui il virus riuscisse a superare i confini congolesi». I finanziamenti per tale programma strategico regionale sono di oltre 15 milioni di dollari per i prossimi nove mesi. Il piano dell’Oms offre «un pacchetto standard di misure da mettere in campo nel momento in cui si dovesse verificare il primo caso di contagio». Per dichiarare l’epidemia finita, bisognerà almeno far passare i 21 giorni di incubazione del virus nell’essere umano.
L’intervista.
«Lotta contro distanze e credenze»
Roberta Petrucci di Msf: «Monitorare e sensibilizzare sono i primi interventi»
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Da diverse settimane l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) collabora con le Nazioni Unite e le agenzie governative congolesi nell’epicentro dell’epidemia di ebola. Tra i membri di Msf c’è la dottoressa Roberta Petrucci, coordinatore medico per l’emergenza ebola di base a Mbandaka, nel nord-ovest della Repubblica democratica del Congo. «Nonostante sia la nona epidemia di ebola nel Paese – afferma Petrucci –, le sfide restano comunque molte».
Quali sono le più grandi difficoltà di quest’ultima epidemia di ebola nella Repubblica democratica del Congo?
Innanzitutto è la prima volta che in questa zona c’è un’epidemia di ebola. Per questo motivo la popolazione locale ha fatto molto fatica ad accettare che ci fosse tale malattia in giro. In un primo momento, infatti, la gente dava la colpa ai rituali tradizionali, alla pratica del malocchio, della stregoneria: consideravano “maledette” quelle famiglie colpite dal virus con un alto numero di morti e contagiati. Altre difficoltà riguardano le distanze: l’ebola ha colpito soprattutto zone remote e rurali, difficili da raggiungere. Spesso ci si può muovere via terra solo in motocicletta poiché con l’auto è impossibile viaggiare in queste zone. Quindi è difficile trasportare i pazienti nei centri per poterli isolare e curare. Molti casi sono invece arrivati a Mbandaka, una città di provincia, con un porto fluviale, di oltre un milione di abitanti, quindi a contatto intenso e quotidiano con la popolazione di molte altre città come la capitale congolese Kinshasa, la capitale centrafricana, Bangui, e quella congolese, Brazzaville.
In che modo si stanno limitando i contagi?
Per riuscire a contenere l’epidemia ci sono diverse attività che devono essere lanciate contemporaneamente. La prima riguarda la sorveglianza: ci sono squadre di epidemiologi che cercano di capire in che modo sta evolvendo la malattia. Contagi da segnalare, potenziali malati da seguire per vedere se ci sono dei sintomi e in caso isolare nel centro di salute il paziente il più in fretta possibile per proteggere comunità e famiglie e garantire al più presto la guarigione. I team di Msf partono in zone remote per parlare con la popolazione, capire da dove arrivava l’epidemia, e dove concentrare gli sforzi presenti e futuri.
L’area in cui lavorate è soggetta quindi a una sensibilizzazione rispetto alla malattia?
Sensibilizzare le persone è fondamentale perché ancora molta gente non crede all’ebola. Oppure gran parte della popolazione non ha le informazioni necessarie per capire di cosa si tratta, come proteggere se stessi, la propria famiglia e la comunità. Tra i nostri operatori ci sono infatti dei promotori della salute, “agenti comunitari” conosciuti dalla gente del posto che vanno quotidianamente a spiegare come proteggersi dall’ebola. È importante anche l’aspetto psico-sociale per i pazienti guariti che escono dai centri di salute e devono essere reintegrati nella società.
In che modo i vaccini sono stati accolti dai malati e dalla gente entrata in contatto con loro?
È la prima volta che usiamo in modo così tempestivo e esteso i vaccini. Abbiamo a disposizione un vaccino che era già stato utilizzato durante la crisi in Africa occidentale e che ha mostrato dei risultati promettenti. Stiamo vaccinando tutte le persone che sono state a contatto con casi di malati confermati o potenziali. Tale pratica chiamata “vaccinazione ad anello” è cominciata il mese scorso. È un modo per creare una sorta di protezione attorno a ogni caso. La gente ora è contenta di avere accesso all’opzione dei vaccini. Speriamo quindi che la crisi si risolva al più presto».
La storia.
La guarigione di padre Lucien, simbolo di speranza
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Padre Lucien Ambunga ce l’ha fatta. Dopo diversi giorni di agonia, il religioso lazzarista è sopravvissuto all’ebola ed è stato dimesso poco tempo fa da un centro sanitario nella località congolese di Itipo, diventando un simbolo di speranza nella lotta all’epidemia. Il sacerdote era stato colpito dal virus lo scorso mese a causa dei rischi insiti nella sua continua opera di assistenza ai contagiati.
«Un sacerdote si è ammalato mentre dava l’estrema unzione a un paziente prossimo alla morte», aveva confermato alla stampa un medico del centro lazzarista. L’arcivescovo coadiutore di Kinshasa, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, era andato a trovare a fine maggio padre Lucien e gli altri malati, in quarantena. E aveva dato la benedizione mentre il religioso era inginocchiato dietro la rete di separazione. La scena era stata fotografata e l’immagine aveva subito fatto il giro del mondo. «Il lavoro di Ambunga e di altri religiosi a Itipo è stato, e continua a essere, fondamentale per combattere l’epidemia – afferma un operatore umanitario –. Grazie alla comunità dei lazzaristi siamo infatti riusciti a guadagnarci la fiducia della popolazione locale e a sensibilizzare la gente».
La parrocchia di Itipo, di cui fa parte padre Lucien, è situata nella diocesi di Mbandaka-Bikoro. Come gran parte delle zone colpite dal virus ebola, si tratta di un’area di fatto sperduta in mezzo alla foresta pluviale congolese. Raggiungerla via terra è infatti molto complicato. Diversi chilometri di strada che partono dalla città di Bikoro, altro centro dell’epidemia, sono percorribili solo a piedi o in moto. Le reti telefoniche sono inoltre spesso disturbate o incapaci di trasmettere. Per questo è difficile comunicare con le persone che abitano in questo tipo di situazioni. «La comunità dei lazzaristi gestisce un centro di salute dove sono stati ricoverati i primi pazienti e dove c’era la maggioranza dei contagi – ha riferito la stampa locale –. Uno dei loro infermieri è infatti morto pochi giorni dopo aver contratto il virus » . Appena confermata l’espansione dell’ebola a Itipo, padre Lucien si è subito attivato per soccorrere i malati. Inoltre, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) ha utilizzato la struttura sanitaria dei lazzaristi per montare velocemente un centro di trattamento ebola in grado di ricoverare le persone più a rischio.
«Solo grazie al lavoro di padre Lucien e dei suoi collaboratori siamo riusciti a spiegare agli abitanti di Itipo le varie caratteristiche dell’ebola – racconta un operatore di Msf –: come il virus si manifesta, come si trasmette e come si può evitare il contagio». All’inizio c’era molta reticenza poiché le persone non si fidavano dei medici e degli infermieri. Le organizzazioni umanitarie in loco hanno convinto le persone che questa malattia esiste ed è molto pericolosa solo grazie al lavoro dei religiosi. Una collaborazione necessaria per riuscire a fermare l’epidemia di ebola.
«La Chiesa ha una grande influenza in tutti i livelli della società congolese – sottolineano gli esperti –. In una crisi particolare come l’ebola la comunità religiosa opera infatti come mediatrice tra la popolazione e le agenzie umanitarie straniere». Padre Lucien ora sta bene e ha ripreso instancabilmente il suo lavoro di assistenza ai malati.
I numeri
1976 è l’anno in cui ebola è stato scoperto per la prima volta a Yambuku, località vicina al fiume Ebola, a nord della Repubblica democratica del Congo
24 è il numero delle epidemie di ebola scoppiate in Africa tra il 1976 e il 2013, con 1,716 casi di contagio stimati dall’Organizzazione mondiale della sanità
11.310 sono i morti causati dall’epidemia che, tra il 2013 e il 2016, ha colpito in Sierra Leone, Guinea (Conakry), Liberia, Senegal,
27 sono i decessi registrati fino ad ora nelle località di Bikoro, Mbandaka, Wangata, Itipo, alla nona epidemia di ebola nella Repubblica democratica del Congo
Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 14 giugno 2018 © RIPRODUZIONE RISERVATA