Questo Maldetto silenzio sull'Africa
Lomé (TOGO) – Proporre storie africane alla stampa italiana è un’arte. Gli argomenti devono essere interessanti ma semplici. Drammatici senza però diventare ingombranti. È necessario raggiungere un perfetto equilibrio tra la potenziale rilevanza in Italia e l’attualità in Africa . Per questo motivo “oltre 200 morti nel centro della Nigeria” (notizia di fine giugno), se menzionati, purtroppo valgono solamente qualche riga di giornale.
Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano e scrittore, ha lanciato di recente un appello indirizzato a noi giornalisti: “Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo”. Le sue parole riconfermano l’importante ruolo a cui la stampa dovrebbe ambire: istruire la società facendo luce sulle verità più nascoste.
Il continente che ha dato origine alla razza umana continua invece a essere relegato in un angolo buio del nostro universo mediatico. L’appello del missionario esorta i mass media italiani a “rompere questo maledetto silenzio sull’Africa”. Un monito che scaturisce dalle ostili posizioni dell’attuale governo nei confronti dei migranti.
Vivo e lavoro in Africa come giornalista dal 2005. In questi anni di “storie africane” ho notato che rompere il silenzio non è tuttavia sufficiente. Essere ascoltati è la parte più complicata. A molti italiani, inclusi diversi miei parenti e amici, sembra infatti mancare totalmente la curiosità verso il continente nero. E la penuria di informazioni giornalistiche è una delle cause maggiori di tale disinteresse.
La nostra realtà è deludente, specialmente se paragonata al panorama mediatico in Francia, Gran Bretagna e Germania. Nei giornali, radio e televisioni di questi Stati non solo si parla di Africa quotidianamente, ma ci sono dipartimenti interni dedicati unicamente agli affari africani. A volte le notizie vengono persino diffuse attraverso le lingue locali, impiegando giornalisti del posto o della diaspora africana. “L’Italia ha un passato storico diverso da quello che altri Paesi hanno con l’Africa”, rispondono in tanti. In parte è vero. Proprio per tale ragione dovremmo però avere il desiderio di capire cosa stia succedendo poco più a sud di noi.
Facciamo alcuni esempi. In questi giorni è difficile far passare notizie che riguardano l’Etiopia, teatro da diversi mesi di violenti scontri tra civili e autorità locali. Per comprendere questi tragici avvenimenti è comunque fondamentale parlare anche delle prime esportazioni di petrolio e gas avviate il mese scorso nella Regione dei Somali, a est del Paese. I conflitti e il cambiamento climatico in Sud Sudan, Somalia e Kenya uccidono e costringono alla fuga milioni di persone. Al tempo stesso, Asia e Medio Oriente stanno investendo sempre di più nel grande potenziale umano, economico e geopolitico di questa regione. Lo stesso vale per Nigeria, Niger, Mali, e molte altre realtà ignorate dalla nostra stampa.
Senza contare che in tutti questi Paesi vivono migliaia di italiani e, da decenni, sono presenti grandi società insieme a tante piccole e medie imprese tricolore. Dirigenti e impiegati si sono sposati con donne e uomini locali, mettendo su famiglia e creando quindi, letteralmente, dei legami di sangue tra noi e gli africani. In Italia, però, i media parlano raramente di tutte quelle occasioni utili per incontrarsi e scambiarsi idee sui rapporti già esistenti tra il nostro Paese e il continente nero.
Come, ad esempio, la seconda edizione dell’Italia-Africa Business Week. Un evento utile a promuovere relazioni sempre più solide tra i commercianti africani e quelli italiani. Opportunità simili vengono organizzate da anni anche da Cina, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Stati Uniti, e Francia, tutti giustamente preoccupati dell’avvenire del mondo. Non interessarsi al percorso economico e politico africano significa aspettare inermi di essere travolti dal futuro. E le cifre parlano chiaro: circa il 65 per cento degli africani ha meno di 35 anni, mentre nel 2100 il numero di abitanti del continente ammonterà a un terzo della popolazione mondiale.
Per questo lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, sebbene efficace, è fuorviante. Le complesse dinamiche che intercorrono tra la cooperazione straniera e i governi locali devono nutrirsi di un dialogo intenso e una profonda conoscenza reciproca se si vuole evitare il fallimento. È un compito che, nell’era della comunicazione, spetta innanzitutto ai media. Da troppo tempo l’Italia procede invece a occhi chiusi, senza accorgersi che le distanze con l’Africa si stanno rapidamente accorciando. L’attuale fenomeno migratorio ci ha colti di sorpresa. E malgrado tutte le incertezze affiorate in questi ultimi anni, i migranti ci stanno insegnando un’importante, inevitabile lezione: il loro futuro è il nostro.
© Matteo Fraschini Koffi per "7" (Corriere) -- 19 luglio 2018