NIGER: Da Agadez alla Libia: il business della disperazione dei migranti

per Avvenire

In migliaia aspettano la «chiamata»

Da Agadez alla Libia: il business della disperazione dei migranti

AGADEZ (NIGER) - «Dammela-dammela, non puoi fotografare!». Un trafficante di migranti, alto, grosso e sui 60 anni, si avventa con ferocia sulla macchina fotografica. Dopo vari tentativi, riesce ad afferrare l’obiettivo cercando di strapparlo. «Credi che io sia uno schiavista? », grida con le mani ancora aggrappate all’apparecchio: «Qui in Niger siamo liberi di andare dove vogliamo, hai capito?». All’improvviso interviene un nigerino che tenta di calmare la situazione, ma viene respinto da un altro trafficante che lo prende per il collo e lo sbatte contro la sua jeep 4x4. Una folla di circa 60 persone, tra cui una ventina di disperati pronti a partire per la Libia, guarda la scena con un po’ di stupore. Il tutto si svolge in un vicolo nascosto della periferia di Agadez, nel nord del Niger. È in questi angoli d’inferno che i migranti si raggruppano per montare sul cassone delle jeep con la speranza di raggiungere la frontiera libica in soli due giorni. Sotto i bagagli con le taniche d’acqua; sopra, i corpi accalcati. Il sistema è ben collaudato. Da oltre 15 anni, una rete di trafficanti li “scheda” e, quando è arrivato il momento di partire, li chiama uno per uno. «So- litamente le jeep e i camion preferiscono partire di lunedì», spiega Kora Amadou, uno dei cosiddetti “facilitatori” residenti di Agadez che aiutano i migranti a scegliere i percorsi e i contatti più sicuri.
«Di lunedì, infatti, la polizia è troppo occupata per seguire le centinaia di veicoli che partono verso il deserto. Ma per i mezzi più in regola – continua Amadou – c’è anche la possibilità di seguire un convoglio militare che ogni settimana, di lunedì e sabato, fa la spola tra Agadez e la cittadina di Dirkou. Insomma, è tutto ben organizzato». Negli ultimi due anni, anche a causa della pressione esercitata dalla comunità internazionale, i trafficanti stanno però molto più attenti. Inoltre, due settimane fa il Parlamento nigerino ha approvato in modo unanime una legge contro il traffico di persone. «Almeno 4mila migranti attraversano Agadez ogni settimana per tentare di raggiungere il Nord Africa e l’Europa », affermano le stime pubblicate dall’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc). Tale legge è basata appunto su un protocollo delle Nazioni Unite che, attraverso le sue varie agenzie, sta lanciando delle campagne d’informazione contro l’illegalità di questo mercato e il rischio che possa collegarsi alle reti del terrorismo islamico. Ma i trafficanti hanno l’abitudine di adattarsi. Ora, infatti, agiscono con molta più discrezione.
Nascondono i migranti, i quali vengono diretti nei ghetti situati sempre più verso la periferia della città; organizzano le disperate “carovane del deserto” soprattutto la sera quando inizia a calare il sole; e, soprattutto, non vogliono farsi fotografare mentre si assicurano che i loro veicoli siano pronti a partire. Il loro è un mestiere particolarmente sporco e, in alcuni casi, molto redditizio.
Ma spesso, il giro d’affari di un “mercante di esseri umani” di Agadez inizia molto prima: quando i gruppi di migranti arrivano nella capitale Niamey da diversi Paesi dell’Africa occidentale e centrale, e si tengono in contatto telefonico con la persona che li aspetta alla porta del Sahara. «Con i miei fratelli sono arrivato ad Agadez due giorni fa e ho dormito in un posto consigliatomi da un residente della città – afferma Samuel Njie, un gambiano che vuole tornare in Europa per la seconda volta –. Io parto domani e spero di arrivare in Italia entro qualche giorno». Samuel ha 38 anni, le braccia robuste e una convinzione ammirevole. È approdato in Sicilia per la prima volta nel 2006 e per 9 anni ha girato quasi tutta l’Europa lavorando tra Francia, Svizzera e Germania. Ora, bisognoso di guadagnare ancora denaro, ha deciso di rifare il tragitto. «Io non ho paura, Dio è dalla mia parte, e poi sono un guerriero per natura – afferma mentre si ripara da un vortice di spazzatura provocato dagli improvvisi e aggressivi mulinelli di vento di Agadez –. Appena arrivo a Milano ho degli amici del Gambia che mi aspettano e vedrà che la chiamerò al cellulare». Nella area vicina si trova invece il ghetto dei nigeriani. Un gruppo di cinque giovani prostitute, provenienti soprattutto dal sud-est del gigante petrolifero, si concia i capelli mentre aspetta i clienti. «Questi sono per mio figlio in Nigeria – racconta una delle giovani mentre mostra qualche paio di pantaloni appena comprati al mercato –. Non posso andare in Libia per questioni di denaro, ma non posso neanche tornare in Nigeria a mani vuote». In queste casupole fatte di terra rossa e assi di legno, una delle prostitute si apparta con un cliente. Qualche minuto e riuscirà a mettere via altri 1,500 franchi (2 euro). Basta invece spostarsi a qualche centinaio di metri per imbattersi in una serie di ristorantini gestiti da altri nigeriani. Emanuel è pronto a partire domani con uno dei camion insieme ad altri suoi compagni viaggiatori. Mentre mangia una salsa di pomodoro insieme a del banku, una specie di pastella molto comune nel suo Paese, ammette che vuole raggiungere l’Algeria dove spera di trovare lavoro. «Inshalla (se Dio vorrà), arriverò sano e salvo e forse potrò pure andare in Europa – dice Emanuel, alzando gli occhi verso il cielo, prima di rituffarsi nel suo piatto – . I migranti che non ce la fanno sono quelli che non si sono meritati l’aiuto di Dio, tutto qua. Io invece me lo merito!». La maggior parte di chi viaggia verso nord è convinta di avere Dio al fianco e nessuno potrà fermarli. Ma sono centinaia anche quelli che ogni mese sono costretti a tornare sui loro passi. Vogliono raggiungere casa perché traumatizzati dal viaggio e dall’esperienza di qualche mese trascorso in Libia alla mercé di altri trafficanti.
«Siamo riusciti a ripartire verso il Niger grazie all’aiuto dei nostri connazionali », spiegano Issa e Surjao, due senegalesi di 25 anni, incontrati poco fuori da Agadez, al cancello del nuovo centro di accoglienza gestito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e finanziato anche dal Ministero dell’interno italiano. «Non abbiamo trovato lavoro e siamo solo stati maltrattati per tre mesi. Poi ci hanno detto che la Croce rossa forse può aiutarci a tornare a casa – continuano i due giovani con le lacrime agli occhi –, vogliamo solo rivedere le nostre famiglie».

 

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