CENTRAFRICA, la paura non è finita

RCA

BANGUI, Centrafrica - «C’è qualcuno che parla inglese? ». Un gruppo di caschi blu pachistani con le armi in pugno urla impaziente per le strade polverose della capitale centrafricana, Bangui. I negozianti li guardano sbigottiti parlando tra di loro in francese. «Bene, quindi lei è un giornalista, gli dica che torniamo con i soldi per pagare, tra dieci minuti». L’ostacolo della comunicazione è solo uno dei vari esempi in grado di dimostrare quanto sia ampio il distacco tra le forze di pace Onu e la popolazione. Soprattutto in questo periodo in cui si avverte un radicale aumento della tensione. «La recente storia del Paese – afferma Adama Dieng, consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi –, insegna che questo tipo di violenza mirata è particolarmente pericoloso e deve essere fermato». Il funzionario Onu si riferisce alle violenze che hanno colpito la cittadina di Bria, nel centroest del territorio, dove qualche settimana fa sono morte almeno novanta persone secondo fonti concordanti. Un gruppo armato chiamato paradossalmente Unione per la pace in Centrafrica (Upc), composto principalmente dall’etnia dei fulani, è stato attaccato dal Fronte popolare per la rinascita del Centrafrica (Fprc). Entrambi appartenevano all’ex coalizione ribelle, Seleka: le milizie islamiche che misero in atto il golpe del 23 marzo 2013. A ottobre c’è stato invece un massacro in un campo per sfollati nella località settentrionale di Kaga-Bandoro. Almeno 37 persone sono morte. In quel caso si trattava di una rappresaglia da parte di miliziani che vole- vano vendicare l’uccisione di quattro giovani musulmani. La Missione Onu nel Paese (Minusca) – sempre più impotente e sempre più isolata dall’indifferenza della popolazione segnata anche da episodi di violenze attribuite ai Caschi blu – si è limitata a definire tale reazione «sproporzionata ». «Penso che questa rimanga una crisi dimenticata – afferma ad Avvenire Fabrizio Hochschild, a capo del coordinamento umanitario delle Nazioni Unite –. Il Centrafrica è infatti oscurato dall’attenzione verso le altre crisi africane “meno invisibili”, come il Sud Sudan, o di maggiore interesse politico o economico, come la Repubblica democratica del Congo». Una guerra tra poveri, in un panorama internazionale catalizzato da altri scenari sui quali i riflettori dei media restano sempre puntati. Con la fine dell’operazione militare “Sangaris” avviata dalla Francia a fine 2013, duemila soldati francesi hanno lasciato lo scorso ottobre il Centrafrica (ne rimangono 350). Il rischio di nuovi combattimenti è quindi molto alto. E sebbene a Bangui regni una strana calma, il resto del territorio è in mano ai gruppi armati e sotto una forte influenza del vicino Ciad. Si combatte per il controllo delle strade, la transumanza del bestiame, le ricche miniere d’oro e diamanti, e le aree settentrionali ad alto potenziale petrolifero. Il quadro attuale è infatti molto complesso. «Prima gli scontri avvenivano soprattutto tra i miliziani cristiani anti-Balaka e i musulmani della Seleka – analizza un funzionario della Minusca –. Ora si combattono anche gruppi che un tempo operavano insieme ». Il risultato: centinaia di morti recenti, 2,6 milioni di civili (oltre metà dei 4,5 milioni di abitanti) hanno urgente bisogno di aiuti, ancora 410mila sfollati interni e altri 420mila fuggiti negli Stati limitrofi. Il Centrafrica, inoltre, è stato marcato da una serie di abusi sessuali perpetrati sia dai soldati francesi e sia da quelli dell’Onu nei confronti di vittime minorenni. «Pochi finanziamenti, mancanza di personale adeguato, regolari aggressioni contro lo staff e saccheggi dei nostri uffici – ammette il capo-missione di un’organizzazione umanitaria internazionale –, sono solo alcune delle sfide quotidiane». Il Paese, però, è sulla via della ricostruzione. Dalla creazione nel 2014 del Fondo fiduciario “Bekou”, promosso dall’Unione Europea per finanziare diversi progetti, alla visita del Papa dell’anno scorso, fino ai 2,2 miliardi di dollari ottenuti a novembre con la Conferenza di Bruxelles, il mondo politico e umanitario sul campo sta cercano di tenere viva l’attenzione sulla realtà centrafricana. E proprio la visita di papa Francesco (del 29 novembre 2015) ha avviato un processo di dialogo e di rifiuto della violenza, con un deciso decremento delle uccisioni e degli scontri come elemento chiave per portare poi il Paese al voto del marzo scorso. «L’Italia vuole assumere un ruolo maggiore rispetto al passato – dice nel suo ufficio a Bangui Andrea Tani, a capo della Cooperazione italiana –. È un Paese da ricostruire completamente e bisognoso di tanti interventi per i quali è però necessaria una pace concreta». Il presidente centrafricano, Faustine-Archange Touadera, ha infatti davanti a sé uno Stato devastato da decenni di isolamento, colpi di Stato, impunità diffuse, marginalizzazione, un livello assai basso di istruzione sia tra la popolazione che tra i funzionari governativi, e una moltitudine di gruppi ancora armati e fuori controllo. «Grazie ai progetti umanitari abbiamo avuto lavoro e la città è di nuovo in pace – conclude Assia Fadjil, una madre musulmana della cittadina sudoccidentale di Boda e beneficiaria degli aiuti dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (Iom) –. Però i miei figli sono in Ciad e ancora non mi fido a farli ritornare qui».

 

Intervista.

«Ora tocca a noi lottare per il nostro Paese»

BANGUI

«La visita del Papa ci ha dato il giusto incoraggiamento per trovare la forza di unirci in una sola nazione», afferma padre Mesmen. Come priore della parrocchia Notre-Dame del Monte Carmelo situata alla periferia di Bangui, il religioso, insieme ai suoi con-fratelli, ospita ogni giorno circa tremila profughi. Un microcosmo emblematico della drammatica crisi ancora in corso nella Repubblica Centrafricana.

Come e quando sono arrivati i profughi di cui vi prendete cura?

È dal 5 dicembre 2013 che la nostra comunità carmelitana accoglie sfollati. All’inizio erano 2.500. A causa delle violenze, però, verso gennaio del 2014 il numero è salito a oltre 10mila. Da allora pian piano sono scesi a 6mila e poi a tremila. Ricordo che quando arrivarono pensavamo tutti che si sarebbe trattato di un periodo breve, due o tre giorni, invece, sono già passati 3 anni.

Come vivono qui?

Innanzitutto vivono e sopravvivono grazie alla provvidenza di Dio. Poi hanno gli aiuti delle organizzazioni umanitarie che li sostengono con progetti legati alla sanità e a vari servizi di base. Inoltre, loro stessi si organizzano per rispondere a bisogni alimentari attraverso una solidarietà comune. Noi del Carmelo li aiutiamo prima di tutto con la preghiera. Poi, però, li incontriamo ogni giorno e cerchiamo di venire incontro alle loro richieste. Così, grazie anche agli aiuti dei nostri benefattori, forniamo quotidianamente 20mila litri di acqua e cibo.

Perché gli sfollati sono ancora qui?

È una domanda complessa poiché parliamo di sfollati che appartengono a differenti “categorie”. Ci sono quelli davvero vulnerabili, persone che hanno perduto tutte i loro averi e segnati dalla morte di membri della famiglia. Altri, invece, restano qui perché gli costa meno rispetto all’affitto di una casa normale. Altri ancora ne approfittano per affittare le loro abitazioni in città. Infine, purtroppo, ci sono i ragazzi di strada che spesso sono protagonisti di episodi di criminalità, anche all’interno del campo.

Pensa che la parrocchia tornerà mai come prima?

Lo speriamo, perché dopo tre anni di assistenza devo ammettere che siamo molto stanchi. Abbiamo infatti il compito di valorizzare al meglio il nostro terreno attraverso delle iniziative che ci aiutino a sostenere diverse spese. Ma soprattutto, vivere così per uno sfollato a volte è davvero umiliante. Riscontriamo infatti una mancanza di intimità per la famiglia, i genitori perdono la loro autorità con i figli, ci sono violenze, casi di banditismo, gravidanze precoci. Speriamo quindi che il governo si attivi presto per aiutare questa povera gente a ritrovare una maniera degna per vivere.

Come potrebbe spiegare in poche parole la situazione del Centrafrica?

Questa crisi è l’occasione per la popolazione di prendere in mano la situazione e puntare allo sviluppo del Paese, sentendosi parte di una sola nazione. Dobbiamo vivere insieme anche se ci sono divisioni religiose o etniche. Ringraziamo la gente di buona volontà che continua ad aiutarci e il Papa per la sua visita importantissima. Ora, però, tocca a noi lottare per un Centrafrica migliore.

 

LA SPERANZA

Un presidente «a sorpresa» per la vera riconciliazione

La stampa l’ha subito soprannominato il «presidente a sorpresa». Erano infatti in pochi ad aspettarsi la vittoria di Faustine-Archange Touadéra, l’uomo che dallo scorso 30 marzo, giorno della sua nomina presidenziale, sta cercando di ricostruire un Paese devastato. «Perdono, riconciliazione, e coesione sociale», è il motto continuamente ripetuto dal capo di Stato centrafricano. Nato 59 anni fa nel quartiere Boy-Rabe della capitale, Bangui, Touadéra viene da una famiglia modesta: padre autista e madre contadina con dieci figli da mantenere. Fin da subito, il giovane Faustine mostra un talento particolare per la matematica. Dopo gli studi in Centrafrica, Costa d’Avorio, Francia, e Camerun – raccontano i biografi –, Touadéra ha avuto una fulminea carriera universitaria che da professore lo ha portato ad essere rettore dell’Università di Bangui.

Bozizé gli conferisce poi il ruolo di primo ministro in un momento molto delicato per il Centrafrica: è il 2008 e, per i successivi cinque anni, il futuro presidente apre un dialogo molto intenso con i vari gruppi armati del nord. «È un uomo discreto, parla poco, ma agisce…per quanto gli è possibile», sostengono i suoi colleghi politici. Qualche mese dopo il golpe contro Bozizé, del marzo 2013, compiuto dai miliziani della Seleka, Touadéra fugge in Francia, insieme alla famiglia per non rischiare di essere incriminato o ucciso. Al suo ritorno riesce a conquistare una buona parte dell’elettorato di Bangui. E durante il secondo turno, i suoi ex rivali decidono di appoggiarlo, dandogli così l’ultima spinta per la vittoria.

 

LE TAPPE

Dai massacri di civili alla svolta di Francesco

Dopo anni di marginalizzazione, violenze e una serie di accordi politici non rispettati, gruppi armati a maggioranza musulmana si alleano nel novembre del 2012 nella coalizione ribelle Seleka. Il 23 marzo 2013 conquistano la capitale centrafricana, Bangui, da cui l’ex presidente, Francois Bozizé, fugge lo stesso giorno. Il leader della Seleka, Michel Djotodia, si insedia come presidente ad agosto, costringendo l’Onu a decidere di dispiegare (solo due mesi) una forza di pace che si affiancherà alle truppe dispiegate dall’ex potenza coloniale francese. Con l’inasprirsi degli scontri tra i seleka e le forze pseudo-cristiane di autodifesa chiamate “anti-Balaka” – il bilancio sarà di almeno 5.000 morti e un milione di sfollati – , Djotodia si dimette nel gennaio del 2014 e viene sostituito dall’ex sindaco di Bangui, Catherine Samba-Panza. A settembre la missione Onu (Minusca) sbarca in Centrafrica. I massacri però continuano. Una speranza giunge con papa Francesco, che arriva a Bangui nel novembre 2015 per l’apertura in Centrafrica della prima Porta santa del Giubileo della Misericordia: un segnale forte per la riconciliazione tra cristiani e musulmani. Gli scontri calano di intensità. Nel febbraio scorso viene eletto presidente Faustin-Archange Tuadera, ex primo ministro del discusso leader Bozizé. Con l’obiettivo di ristabilire il territorio, la Conferenza di Bruxelles per il Centrafrica – un mese fa – assegna 2,2 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese. 

 

Matteo Fraschini Koffi per AVVENIRE - 18 dicembre 2016

 

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Matteo Fraschini Koffi - Giornalista Freelance