Shabaab, visti italiani e Onu Intrigo a Nairobi

per Avvenire

Visti venduti nelle sedi diplomatiche italiane a Nairobi? Rilasciati, dietro lauti compensi, a cittadini somali coinvolti in traffici di esseri umani e, addirittura, a membri di al-Shabaab, il gruppo ribelle di matrice qaedista?

Domande che sorgono dopo che il Gruppo di monitoraggio Onu per la Somalia e l’Eritrea (Semg) ha mosso rilievi (pesanti ma fragili) sul conto della diplomazia italiana in Kenya e dopo che anche Avvenire ha svolto un’autonoma ricerca di conferme. Le supposizioni del Semg sono raccolte per il secondo anno consecutivo nel dossier riservato 2011 che l’organismo delle Nazioni Unite ha compilato e diffuso a luglio. Supposizioni che possono creare imbarazzo alla nostra diplomazia, ma che fanno anche emergere serie perplessità su alcuni documenti preparati da certi organismi dell’Onu.

 

Il Semg ritiene infatti che membri delle ambasciate d’Italia per il Kenya e la Somalia siano stati coinvolti tra il 2005 e il 2010, in genere inconsapevolmente, ma in alcune circostanze anche volontariamente, nella vendita illegale di visti a trafficanti somali. Visti che potrebbero essere finiti anche nelle mani dei guerriglieri che stanno affamando il Paese, impedendo l’arrivo degli aiuti per contrastare la carestia o saccheggiandoli e rivendendoli.

Dossier «secretato»
Il rapporto dei funzionari Onu è sotto rigoroso embargo. Attraverso fonti del Palazzo di Vetro a New York, Avvenire ha ottenuto però la documentazione etichettata come "strettamente confidenziale". «Nel gergo delle missioni internazionali, questo tipo di dossier è chiamato "Comunicato ufficiale del caso (S.o.c.)" – ammette Matt Bryden, coordinatore del Semg, raggiunto al telefono a New York –, ma non sono autorizzato a parlarne perché è la relazione più confidenziale tra quelle che produce il mio ufficio». I S.o.c., rapporti più dettagliati, circolano unicamente all’interno delle delegazioni dei quindici Stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, i quali decidono poi se avviare procedure di sanzione contro i Paesi o le persone coinvolti.

Il ruolo del trafficante
Nella documentazione confidenziale che Avvenire ha potuto esaminare, si legge che il più noto trafficante somalo di esseri umani, Abdirahman Abdi Salawat, in violazione della risoluzione Onu 1907 del 2009, relativa a sicurezza e terrorismo, «usa l’Italia come principale via di traffici verso l’Europa». Nel rapporto pubblicato dal Semg, Salawat è accusato di aver violato la risoluzione Onu in quanto «ha fatto arrivare in Europa presunti membri di al-Shabaab». Su cosa si fondano le rinnovate accuse dell’Onu all’Italia (già nel 2010 il rapporto parlava di circostanza analoghe)? Secondo quanto si è potuto appurare, tutto è cominciato il 20 settembre del 2009, con un messaggio di posta elettronica proveniente da un anonimo "deputato somalo" e avente come oggetto «Tangenti e corruzione per i visti emessi dall’ambasciata d’Italia a Nairobi», destinato all’Ufficio immigrazione dell’Unione europea.

Le circostanze riportate nella e-mail furono alla base di un’investigazione del Semg, che continua tuttora. «Diverse fonti somale ci avevano confermato tali accuse – afferma Bryden, superando in parte il riserbo –. Così, dopo aver raccolto prove sulla corruzione nelle vostre ambasciate, abbiamo ritenuto giustificato menzionare l’Italia nel rapporto di marzo 2010». Poco prima della pubblicazione del documento, una delegazione del Semg si era incontrata il 23 febbraio del 2010 con due rappresentanti della missione d’Italia presso il Palazzo di Vetro. Bryden sostiene addirittura di essere stato «verbalmente minacciato» dai due diplomatici dopo avere annunciato l’intenzione di accusare l’Italia di corruzione nel rapporto che era allora in uscita.

L’ispezione da Roma
A quel punto, la Farnesina spedì a Nairobi nel marzo 2010 due ispettori per parlare con i diplomatici interessati e controllare gli archivi dei visti. Le conclusioni dell’ispezione sono in un documento inviato a Roma e non accessibile ai media. Uno dei provvedimenti – per così dire dimostrativo – della Farnesina fu però quello di togliere la firma per la concessione dei visti all’ambasciatore italiano presso il Governo federale di transizione somalo (Tfg), Stefano Dejak (recentemente nominato ambasciatore in Uganda e insediatosi a Kampala il 22 ottobre come ambasciatore per Uganda, Ruanda e Burundi), il quale dal 2009 aveva ricevuto l’incarico di approvare le carte d’ingresso unicamente per i funzionari politici del Tfg. «Dato che l’Italia era menzionata nel rapporto – afferma una fonte diplomatica italiana sotto anonimato –, la Farnesina aveva ritenuto opportuno sospendere l’autorità sui visti all’ambasciatore Dejak, per evitare qualunque fraintendimento». Ma solo la relazione confidenziale degli ispettori sarebbe in grado di far luce sul vero motivo del provvedimento.

Interpellato direttamente da Avvenire, il nostro ministero degli Esteri ha confermato che il suo ispettorato, nel marzo 2010, su segnalazioni imprecisate di possibili irregolarità, dispose una missione a Nairobi che si concluse con alcune raccomandazioni per correggere le procedure del rilascio dei visti. Non furono però rilevati – sottolinea la Farnesina – né casi specifici di corruzione né elementi di responsabilità individuali tali da fare assumere altri provvedimenti.

Smentite e conferme
Dopo la pubblicazione del rapporto Semg 2010, la diplomazia italiana a Nairobi definì i rilievi in esso contenuti «voci senza fondamento». Sebbene Avvenire non abbia trovato alcuna prova riguardo alla complicità diretta delle ambasciate italiane relativa al traffico di visti, le fonti incontrate a partire dal luglio 2010 hanno tuttavia descritto un complicato e sorprendente quadro delle dinamiche che caratterizzano l’emigrazione dei cittadini somali. «Molti di noi devono affidarsi agli ’intermediari’ per ottenere un visto dall’ambasciata italiana», spiega Omar, una delle fonti, che ora vorrebbe essere rimborsato dall’intermediario che non è riuscito a fargli ottenere il visto. «Dobbiamo pagare persino per raggiungere il nono piano dell’edificio in cui si trova l’ambasciata italiana a Nairobi».

Ci è stato infatti riferito che negli ultimi quindici anni la somma da pagare ai mediatori locali per salire all’ufficio consolare era tra i 100 e 500 dollari. Altre centinaia di dollari sarebbero state versate per corrompere ufficiali dell’immigrazione keniota e italiana, addetti delle compagnie aeree e retribuire i trafficanti stessi. Sia le investigazioni del Semg sia quelle di Avvenire fanno emergere che un visto emesso dall’ambasciata italiana poteva fruttare alla catena degli intermediari tra i 12 e i 20mila dollari, denaro che i somali raccoglievano soprattutto attraverso parenti e amici già residenti all’estero. «Una volta pagata la somma, i trafficanti fanno arrivare un taxi sotto casa», afferma Halima (nome di fantasia), in attesa di essere prelevata per il viaggio della speranza in Europa. «Dall’aeroporto di Nairobi, un intermediario accompagna fino a destinazione per consegnarci a un altro trafficante in Italia, che gestisce l’arrivo e il passaggio di altre frontiere europee».

La maggior parte delle persone coinvolte nel traffico d’esseri umani usa l’Italia come punto di passaggio per raggiungere l’Inghilterra o i Paesi scandinavi. Alcuni cittadini somali da noi intervistati puntano il dito contro un intermediario chiamato Banjo, e vari trafficanti, tra cui lo stesso Salawat. «Ho lavorato ufficiosamente per l’ambasciata d’Italia a Nairobi tra il 2005 e il 2009», ci ha detto Banjo nel dicembre 2010. «Mi occupavo di aiutare i somali a compilare i moduli per il visto italiano. Lo facevo volontariamente – spiega –, ma qualche soldo, secondo le possibilità dei miei clienti, lo guadagnavo». «Il Semg crede che Salawat abbia usato Banjo per cospirare con un diplomatico d’alto rango all’ambasciata italiana presso il Tfg», è scritto nel rapporto S.o.c. Crede, ma non dimostra.

Introdotti nuovi meccanismi
Secondo quanto acquisito da Avvenire, con un messaggio di posta elettronica del 4 maggio, la diplomazia italiana in Kenya aveva inizialmente negato al Semg di aver utilizzato Banjo. «Per poi ammettere che Banjo avesse lavorato come "traduttore" nella sezione consolare – si legge nel dossier S.o.c. –, ma che era impiegato in qualità di assistente personale di un ex membro dell’ambasciata italiana per il Kenya».

Nonostante ripetute sollecitazioni riguardo a Salawat, il corpo diplomatico italiano in Kenya non ha voluto rilasciare commenti ad Avvenire. Dopo molti anni e in seguito alle pressioni di vari attori, comunque, dal primo agosto 2011, tutti i richiedenti visto devono prenotarsi, presentare la documentazione necessaria e ricevere risposte attraverso la società VFS Global.

«Testimoni» non disinteressati
Non si deve comunque tacere che vi sono lacune nell’investigazione del Semg. Nel dossier sul caso, ad esempio, si parla di «sette visti commissionati da Salawat e ipoteticamente emessi dall’ambasciata italiana di Nairobi». L’unica prova fornita a sostegno di tale affermazione è un visto, esaminato da Avvenire, che risulta chiaramente falsificato. Il Gruppo di monitoraggio mostra inoltre di essere un’agenzia Onu che non può essere essa stessa controllata, perché «siamo prima di tutto protetti dall’immunità», conferma Bryden, i cui colleghi spendono spesso centinaia di dollari per ottenere informazioni dalle proprie fonti. In almeno due occasioni siamo stati direttamente testimoni del pagamento di cento dollari, messi in una busta, quale "prezzo" degli incontri tra un investigatore del Semg e due fonti somale. Per via di tale pratica, le informazioni avute da queste «fonti molto attendibili», come vengono definite nel rapporto pubblico dell’organizzazione Onu, sono infatti state spesso messe in dubbio da analisti e diplomatici che da anni si occupano della crisi somala.

 

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