Sangue sull’anniversario del Sud Sudan

Pibor, Sud Sudan

DAKAR, Senegal – Una crisi nella crisi. A cinque anni esatti dall’indipendenza del Sud Sudan, ottenuta dopo decenni di guerra civile con il Sudan, un’ondata di sangue ha investito venerdì sera la tormentata capitale Juba. Secondo le prime ricostruzioni, sono oltre 150 le vittime. Il numero è però destinato ad aumentare: «Almeno 109 cadaveri sono stati portati al Juba Teaching Hospital dopo gli scontri», ha affermato ieri una fonte medica al sito d’informazione locale Radio Tamazuj. «È però impossibile in questo momento contare i morti. I soldati impediscono ai medici di esaminare i corpi e – ha aggiunto la fonte –, l’obitorio é ormai pieno». Sebbene durante la giornata di ieri abbia regnato una relativa calma nella capitale, la tensione resta palpabile. I combattimenti sono scoppiati venerdì sera vicino al palazzo presidenziale e in altri quartieri della città provocando la fuga di civili in cerca di un luogo sicuro. Alcuni di essi si sono rifugiati nella base della Missione Onu nel Paese (Unmiss). Anche lì, però, diverse persone sono rimaste uccise o gravemente ferite dal fuoco incrociato. «Gli spari hanno raggiunto quasi tutti i quartieri della città inclusa la base Unmiss vicina alla zona di Jebel – ha spiegato un funzionario dell’Onu sotto anonimato –. In quest’area hanno trovato rifugio più di 28mila civili, vittime di massacri continui». Nella più giovane nazione africana in cui il presidente, Salva Kiir, e il suo vice, Riek Machar, sono da anni acerrimi nemici, è assai difficile capire le dinamiche di tali violenze. I due si accusano a vicenda dopo ogni scontro. Paradossalmente, però, le prime cannonate si sono avvertite mentre entrambi stavano nel Palazzo presidenziale. «Alcuni elementi contrari alla pace occupano il loro tempo terrorizzando i nostri villaggi e le nostre città – ha detto ieri Kiir durante una conferenza stampa nel palazzo presidenziale con il rumore degli spari di sottofondo –. Questo è ciò che è successo anche oggi». Al suo fianco ha preso poi il microfono l’ex capo dei ribelli, Machar. «Dobbiamo rimanere calmi, anche questa situazione sarà presto sotto controllo – ha spiegato il vicepresidente –. Adotteremo le misure necessarie affinché la pace venga ripristinata, anche nel centro della città». Secondo una fonte militare dell’Spla-Io, il gruppo di soldati fedeli a Machar, sono morti 37 dei loro uomini. Sebbene sia ancora però troppo presto per definire con precisione le diverse fazioni in lotta, gli esperti parlano di «frange indisciplinate presenti sia tra gli alleati del presidente che del vicepresidente». La guerra civile, scoppiata a fine 2013 dopo che Kiir ha accusato Machar di un tentativo di colpo di Stato, è legata all’enorme potenziale petrolifero e a un confine con il Sudan non ancora determinato. Sebbene ci si limiti alle stime, i morti sono stati almeno 50mila. Altre cifre parlano di addirittura 300mila. «Circa 2,2 milioni di sudsudanesi sono sfollati o rifugiati a causa delle violenze perpetrate da entrambe le parti», ha recentemente affermato l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur). Poco prima del fragile accordo di pace firmato dai ribelli e dal governo lo scorso aprile, entrambi i leader hanno fatto appello pubblicamente ai loro soldati di mantenere la calma e rispettare gli ordini. Ma in un Paese così giovane e che da oltre 60 anni conosce solo la guerra, l’anarchia è ormai legge. MATTEO FRASCHINI KOFFI per Avvenire – 10 luglio 2016

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